Il nuovo Mou e l’effetto Roma: un capitolo unico nella storia di un tecnico unico

L’Olimpico sempre pieno e ora la semifinale di Europa League: come nasce e si sviluppa il connubio speciale tra José e la Capitale

Comunque e quando andrà a finire. Questo di Mou alla Roma resterà un capitolo unico della sua fantasmagorica storia di allenatore. E, forse, il più bello. Senza forse. L’Olimpico giovedì sera, come tante altre volte, più di altre volte, era molto di più di uno stadio di calcio. Arrivo a dire, e non sia scandalo, più di Liverpool, più di Buenos Aires, più di Madrid o Barcellona. Certamente diverso. Non ci sono parole. Le parole non bastano mai nei casi di estasi. Chiedere per informazione alle mistiche di ogni epoca, che infatti si danno mute, sante, folli o digiunanti. Mai parlanti, se non in solitudine e con Chi di dovere. Da bravo e intelligente capitano, Lorenzo Pellegrini si è incaricato di confessare questa bellissima impotenza: “Quello che ho visto oggi, già nel percorso da Trigoria all’Olimpico è qualcosa d’inspiegabile”. Bravo Lorenzo, le cose sono davvero grandiose quando non si possono spiegare. Quando non si possono dire. Nemmeno José sa dirlo. In una lingua non sua, ma fosse anche la sua. Si può cominciare allora con il dire quello che non è giusto dire. Non è esatto dire che José è stato l’artefice di questo miracolo: una tifoseria sfilacciata, delusa, lagnosa, vittimistica, che diventa nel giro di due anni una comunità mistica, “nella vibrante intesa di tutti i sensi in festa”. Settantamila, più gli altri. Tifosi, allenatore, giocatori, dirigenti, tutti.

José è stato l’interprete magnifico, impeccabile, “terribile” direbbe lui, terrific all’inglese, di una storia che ha una matrice precisa. José Mourinho capita a Roma, uomo giusto nel momento giusto. Provvidenza pura che, ironia della laica sorte, si serve di due pragmatici (e molto ispirati) texani, padre e figlio, come nei western delle sfide estreme nel deserto. Mou arriva con il suo alone di leggenda nel deserto, una città in ginocchio, ai minimi termini, nel degrado urbano, nella sfiducia per la politica e nella decadenza del tessuto sociale. La gente esce di casa la mattina con il livido presentimento che non incontrerà per le strade concittadini solidali, ma gente ostile, nemica, più disponibile a insultarti che a farti un sorriso.

Mou è un uomo vecchio stampo. E ora comincia anche a essere vecchio. Ha i capelli bianchi e la memoria sazia. Ha vinto tutto, con i più grandi club del mondo. Il suo ego resta monumentale ai limiti del paranoico. Il suo grande merito (l’uomo è molto intelligente e gli uomini intelligenti invecchiano bene) è “avvertire” dal primo giorno che qua, a Roma, è un’altra storia. A Roma aspettano qualcuno che somigli a un messia. Non è un sindaco, non è un prete? Sarà un allenatore o uno sciamano. Forse non lo sanno nemmeno loro, romani o romanisti, ma aspettano di tornare ad essere una comunità. Hanno nostalgia di questo, molti di loro senza averlo mai vissuto. Nostalgia di quello che è stato o non è stato, non importa. José è perfetto. Non sbaglia una mossa, una parola. Ha i capelli bianchi e gli anni giusti. Il suo ego da sbarco si scioglie, tracce di zucchero nei suoi occhi di serpente, segni di cedimento e di tenerezza. “Empatia” è la parola che pronuncia più volte da quando è a Roma. È il suo più spinto tentativo lessicale di raccontare l’”inspiegabile”. Una città che, con la scusa della Roma, grazie alla Roma, con la scusa di Mou, grazie a Mou, sta vivendo alla lettera un viaggio lisergico. La droga potente dei sogni collettivi, delle terre promesse.

Dalla gente a Mou, da Mou alla gente, dai tifosi ai calciatori. Mou ha scoperto la gioia. La Joya ha ritrovato la gioia. Inventa come un genio e lotta come un mediano. Li avete visti in tribuna Ryan il texano e Lina la Greca? La loro maschere cedere prima piano e poi di schianto allo stupore. De Rossi e Totti, felici di essere lì, in tribuna, e distrutti di non essere là, in campo. Una comunità in trance. Bambini e bambine, anche loro con i coltelli tra i denti. Nella loro iniziazione di cosa voglia dire essere parte di qualcosa. Mancini, diventato un bellissimo animale, che prende un calcione assassino alla tibia e reagisce come Jack Palance, con un ghigno di scherno. Bryan Cristante, pieno di buchi e di ferite, che si rialza sempre, l’immenso Matic (“una sorta di mostro marino” che tutto fagocita e tutto splende nella versione dell’immaginifico Mirko Bussi di “LaRoma24”), tra i tre tuttocampisti più forti mai apparsi sulla scena romanista, e mi tengo stretto.

E poi lui, José. “Non posso dire che questi ragazzi siano per me dei figli, perché sono già felicemente papà di due figli…”, si lascia dire in fondo all’estasi. E allora: che sia nonno José, nonno Mou per tutti. Il nonno sapiente con i capelli bianchi. E migliaia di nipotini. Quando i nonni erano, e qualche volta lo sono ancora, le guide spirituali della tribù che li venera. Custodi della loro identità. Nonno Mou ci ha preso gusto a ballare con i lupi. Comunque vada, avranno vissuto abbastanza a lungo felici e contenti. Le magie sono nell’aria. Le cose belle sono lì, smaniose di accadere. Qualche volta accadono. Servono le giuste combinazioni. I lupi che ballano e gli atomi che danzano.

Precedente Diretta/ Como Ascoli (risultato 0-0) video streaming tv: in campo, si comincia! Successivo Quando Platini vide Maradona. E si inchinò al nuovo re