“Ho vissuto tante vite e non ho mai recitato. Rifarei ogni cosa. Io, Sinisa, sono così”

La prefazione di “La partita della vita”, scritto da Mihajlovic (editore Solferino): la vita, le gioie, i trionfi e i dolori con la lotta alla malattia. Tutto questo è stato raccontato da Sinisa Mihajlovic ad Andrea Di Caro e raccolto in un libro uscito nel novembre di due anni fa

Sinisa Mihajlovic

17 dicembre – Milano

Mi chiamo Sinisa e sono nato due volte. La prima il 20 febbraio 1969 a Vukovar, ex Jugoslavia, oggi Croazia. Devo ringraziare mia madre Viktorija, croata, e mio padre Bogdan, serbo, per avermi messo al mondo. Quando è successo era un giovedì, non ho pianto. Mi hanno raccontato che avevo già un’arietta da duro, hanno dovuto sculacciarmi tre volte per farmi emettere un urlo. Cinquant’anni dopo, il 29 ottobre del 2019 sono nato una seconda volta, all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna. E stavolta devo ringraziare un ragazzo americano, sconosciuto, che mi ha donato il suo midollo osseo e l’equipe medica che si è occupata del trapianto per curare la leucemia. Quel giorno era un martedì, ho ricevuto da tutti solo carezze, eppure ho pianto a lungo.

Sono nato due volte, ma ho già vissuto tante vite. Quando ho compiuto cinquant’anni, il 20 febbraio del 2019, mi sono guardato indietro: “Sinisa, quanto mondo hai visto…”. Ci scherzavo su, gonfiando i muscoli: “Mi sento vent’anni, ma a volte penso di averne centocinquanta per tutte le esperienze avute”. L’adolescenza in Serbia, il duro lavoro dei miei genitori, le giornate a giocare a pallone da solo, gli inizi della carriera, la Stella Rossa, le amicizie pericolose nella Belgrado di fine anni Ottanta, i trionfi sportivi. E poi l’Italia, la consacrazione nel campionato più bello e importante del mondo, le squadre in cui ho giocato, quelle che ho allenato e le tante città in cui ho vissuto.

Ho conosciuto presidenti che hanno segnato il mondo dell’industria, della finanza, della politica, della moda, del cinema, della comunicazione e dell’editoria. Sono stato allenato da maestri di tattica e di vita e ho attraversato trent’anni di calcio con compagni di squadra e di avventure. Grandi campioni, giovani talenti, promesse non mantenute e… discrete pippe.

Ho giocato, vinto e perso partite mitiche passate alla storia e alcune piene di ombre. Conosco l’orgoglio di giocare in nazionale e di allenarla. Coppe e scudetti, punizioni divine e gol sotto all’incrocio, corse e tackle, applausi e fischi, scalate, cadute e ripartenze. Liti, accuse, polemiche feroci. La fama e le pistole. La fame e l’agiatezza. Sono padre di sei figli, cinque dal matrimonio con Arianna, l’amore della mia vita: è la mia famiglia la vittoria più bella. E in mezzo a tutto l’esperienza devastante delle guerre nei Balcani. Sanguinose, fratricide, disumane. La Jugoslavia disgregata, i morti, le ferite mai rimarginate.

Mentre, a cinquant’anni, tutto questo mi passava davanti agli occhi, solo pochi mesi dopo sarebbe iniziata la partita più importante, quella della vita. Un dolore improvviso, le analisi, la diagnosi: leucemia acuta mieloide. L’annuncio, il ricovero, le cure, il coraggio che fa a pugni con la paura. Le lacrime, la speranza. Il trapianto, il ritorno in panchina, la riscoperta delle piccole cose. Nel mio destino però c’è scritto che debba provare tutto, anche la positività al Covid, il virus che ha chiuso in casa il mondo. Sono sempre stato un uomo difficile, divisivo, che si esaltava nello scontro. Spesso muscolare. Ho un carattere forte che per molti diventa sinonimo di caratteraccio. Forse perché non mi sono mai nascosto, prendendo anche posizioni scomode o sconvenienti. Sono serbo dalla testa ai piedi, con i pregi e difetti del mio popolo orgoglioso.

Ho sentito su di me mille giudizi, spesso superficiali. Non ero il guerrafondaio e machista che molti si divertivano a dipingere anni fa senza avermi mai conosciuto, non sono l’eroe che ora a molti piace raccontare dopo la mia lotta alla malattia. Di certo non ho mai recitato. Ho vissuto spesso a muso duro. Però anche uno con attributi può commuoversi e avere momenti di fragilità. Non sono infallibile, mai pensato di esserlo: ho sbagliato e sbaglierò ancora, ma sempre da uomo. E i miei errori li ho sempre. Pagati, senza sconti. Chi mi conosce sa che so essere dolce e affettuoso, ma è molto meglio se non mi fanno incazzare.

Per tanto tempo ho preferito un ghigno a un sorriso. E a chi mi fissava per più di cinque secondi dicevo: “Che cazzo guardi?”. Ora ho imparato a controllarmi un po’ di più… Si invecchia, si cambia e, spero, si migliora. Un grande scrittore, Leonardo Sciascia, nel “Giorno della civetta” divideva l’umanità in cinque categorie: uomini, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà. Aveva ragione. E nel mondo del calcio è un po’ la stessa cosa.

Non so cosa mi riserverà ancora il futuro, ma so che rivivrei e rifarei tutto, nello stesso modo. Anche gli sbagli, anche i dolori. Perché non esistono vite perfette. E sarebbero pure noiose. Ho vissuto ogni partita come fosse la vita. E la vita come fosse una partita. Se oggi sono quello che sono, è grazie a tutto quello che mi è successo. Mettetevi comodi, perché sto per raccontarvelo…

Precedente Diretta/ Albinoleffe Pordenone, streaming video tv: punti importanti (Serie C) Successivo La profezia di Ibrahimovic: "Finale mondiale? È già tutto scritto"