Gravina esclusivo: “Figc, Superlega, Playoff Serie A, ecco il mio programma”

Non basterà spostare in avanti il termine del 16 febbraio per la verifica dei pagamenti?

«Il rapporto contrattuale tra società e atleti è legge tra le parti. L’unica possibilità è un accordo bilaterale per una dilazione, di fronte al quale la Figc può posticipare il termine. Ma non di tanto, altrimenti si finisce per svantaggiare chi ha pagato. Il che, anche sportivamente, sarebbe inaccettabile».

E se entrasse in campo l’Uefa?

«Né l’Uefa, né la Fifa possono intervenire su negozi giuridici di natura privatistica, incardinati nell’ordinamento italiano. Neanche l’associazione calciatori avrebbe il potere di stringere accordi vincolanti tra le parti. La via è stretta. E richiede una presa di coscienza collettiva da parte di tutto il movimento. Questo è il passaggio che ci attende, se vogliamo salvaguardare un sistema».

Al netto del salvataggio, c’è anche una questione morale? Insomma, stipendi spropositati si giustificano in un mondo che sta ridefinendo i suoi valori e le sue priorità?

«Non la chiamerei questione morale. Stiamo al diritto, che contiene i principi della morale ma li traduce in norme. Il diritto pone la questione dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione per eccessiva onerosità. Vuol dire che, se io faccio con te un accordo basato su un’ipotesi di profitto, e poi il profitto viene meno perché perdo 600 milioni di euro a causa del Covid, quell’accordo è impossibile. Perciò va adeguato alla nuova realtà. Ora, si tratta di evitare uno scontro di fronte a un collegio arbitrale. Con un po’ di sensibilità. Come stanno facendo molte aziende con i loro dipendenti. Il calcio deve far sua questa consapevolezza».

E il governo cosa può fare per aiutare il calcio?

«Prendere atto che questo sport finanzia le casse pubbliche con un miliardo e 300 milioni di tasse all’anno. Per ogni euro che riceve dallo Stato, il calcio ne restituisce 16,2. Non chiedo ristori, che pure sarebbero giusti, ma che nessuno ha fin qui ricevuto. Ma almeno agevolazioni fiscali concrete. E poi riconoscimento della nostra dignità. Del ruolo sociale che svolgiamo valorizzando i giovani, aggregando le comunità. E rispettando protocolli sanitari che ci costano decine di milioni di euro. Tutto a perdere. Perché qui non si tratta di fare profitti, di cui per ora non si vede neanche l’ombra. Ma di salvare un segmento dell’economia di mercato. E di dare un messaggio disperanza al Paese. Questo stiamo facendo».

Manca questa sensibilità nel governo?

«Non so e non voglio giudicare. Ma i risultati sono fin qui due mesi di slittamento fiscale. Che, se rinviamo il pagamento degli stipendi, valgono poco. Mi chiedo che sarebbe successo se tutte le società avessero deciso di fermarsi e l’erba fosse cresciuta, trasformando gli stadi in campi incolti. Che cosa avrebbero raccontato, i politici, ai dodici settori merceologici che attorno al calcio girano? Perché questo è il punto. Siamo ancora additati come soggetti che vivono nell’opulenza. Ma si dimentica che quest’opulenza traina e finanzia un milione di praticanti».

Qualcuno dice che la debolezza del calcio è un po’ colpa sua. Che tratta da solo con il governo anziché porsi sotto l’ombrello del Coni.

«Perché forse il Coni ha ottenuto qualcosa di più rispetto a noi? Le federazioni che hanno portato a casa un risultato lo devono anche al calcio».

Intanto l’aspettativa di riaccogliere i tifosi negli stadi sfuma di fronte al rischio concreto di una terza ondata della pandemia. Vi state preparando a una stagione senza botteghino?

«Il danno emergente è già disastroso. Quello futuro ancora di più. Pensare, con quello che sta avvenendo, di salvare i conti con il pubblico sarebbe un sogno. E un errore di strategia. Noi chiediamo altro. Che il Paese abbia considerazione di ciò che facciamo per l’economia, per la società e per la cultura, continuando a giocare in mezzo a questo dramma».

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Diamo per scontato che lei sostiene il vaccino…

«Non vedo l’ora di farlo».

Ma ritiene che i calciatori, in ragione della responsabilità e del rischio a cui sono esposti, andrebbero immunizzati con priorità?

«Priorità no. Stare alla pari degli altri sì, senza corsie preferenziali. Ma ha ragione il presidente della Lega: chi è vaccinato dovrebbe poter entrare in uno stadio. Vorrebbe dire premiare medici e operatori sanitari che stanno facendo un lavoro straordinario per il Paese».

Si candida a una delle elezioni meno incerte di sempre nella storia della Figc, avendo coalizzato sulla sua persona la A, la B, la Lega Pro, i calciatori e gli allenatori. Non sarà un plebiscito?

«Sì, è un fatto inedito. Non solo perché la spinta a ricandidarmi è venuta proprio dai delegati delle rispettive componenti. Ma perché all’interno di ciascuna categoria il consenso sul mio nome era quasi unanime. La considero una responsabilità personale. Ma anche un punto di forza per il calcio e per tutti quelli che al calcio guardano come a un riferimento».

Una maggioranza bulgara non è anche frutto di concessioni? E rinunce? Aveva annunciato ricambi ai vertici delle singole componenti, poi ha chiuso un occhio sui troppi mandati degli arbitri. Da buon democristiano ha dovuto mediare tra qualche interesse?

«Apprezzo la sua metafora, mi sento un moderato. Ma non ho fatto alcuna concessione e non ho negoziato su nulla. Ho incontrato i delegati e riscontrato da tutti un consenso convinto. Quanto alle regole dei mandati, non si cambiano contro o a favore di nessuno. Ma una ri? essione certamente s’impone e sarà uno dei primi temi del consiglio federale».

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Resta fuori dall’accordo la Lega Dilettanti del suo potenziale rivale, Cosimo Sibilia. Pensa che alla fine si candiderà?

«È giusto che faccia le sue valutazioni, è un principio di democrazia. Sono stato io a difendere il diritto di ogni componente a esprimere un candidato. Però un’alta percentuale del calcio italiano ha scelto la continuità, perché ha riconosciuto alla mia persona determinazione e capacità gestionali, in un anno drammatico che mi ha messo alla prova. Credo che tutti sappiano di poter contare su un riferimento e su una guida per il futuro».

Con il presidente della Lega di A, Dal Pino, c’è un ticket anche per la sua elezione?

«Non conoscevo Dal Pino prima che entrasse in questo mondo. Apprezzo il suo equilibrio. In maniera discreta ha posizionato la Lega al centro della Federazione. Nel rispetto della scelta, che spetta a ciascun presidente, mi auguro che sia riconfermato».

Con Malagò è finita la crisi? La sostiene, oppure siamo ancora ai rapporti istituzionali, ma senza nessun calore?

«Credo che, dopo esserci un po’ conosciuti, la nostra relazione sia diventata ottima. Lui si è convinto che il calcio italiano ha una guida seria e affidabile, e che la Figc sa stare nel Coni in maniera corretta e propositiva. Io gli riconosco qualità che danno energia e forza a tutto il movimento».

Quindi sosterrà la sua candidatura a maggio?

«Assolutamente sì»”.

Ma se sarà eletto, Sibilia sarà ancora il suo vice?

«È presto per dirlo. Ci sarà un confronto. Conosco le regole e lo stile. Non si può pensare di governare il calcio con le maggioranze e le opposizioni. Ma non si deve neanche penalizzare una componente per una mancata designazione. Terrò conto dei comportamenti, delle capacità, del peso politico di ciascuno».

Lunedì la Lega stringe con i fondi sulla Media company che gestirà i diritti tivù. Lei sostiene un accordo che porta nella casse del calcio 1,7 miliardi. Ma non teme che l’ingresso della finanza nella governance espropri i club di una quota di sovranità?

«Non ho personalmente caldeggiato questo accordo. Ma ritengo che oggi sia l’unica soluzione concreta sul tavolo. Dal Pino ha fatto un gran lavoro, coinvolgendo tutti i presidenti nella scelta. La quota del 90 per cento, riservata alle società, mi pare scongiurare il rischio di veder ridotta l’autonomia del calcio sotto il profilo della gestione sportiva».

Il bilancio delle proprietà straniere non è tutto rosa. Abbiamo visto il flop di miliardari americani come Pallotta, e in questi giorniassistiamo agli incerti di miliardari cinesi come Zhang. Qualcuno inizia a pensare che erano meglio i vecchi padri padroni…

«A trovarli. Mi chiedo che cosa accadrebbe oggi al calcio italiano, se non ci fossero capitali stranieri. Dobbiamo essere onesti. Se non sviluppiamo sostenibilità, se non riduciamo il rapporto tra costo degli ingaggi e ricavi, non potremo fare a meno di finanza che viene dall’estero. Il sistema ha perso imprenditori di spessore, stanchi di ? nanziare investimenti irrealizzabili».

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Come gli stadi?

«Già, come gli stadi. Sono una condizione essenziale della sostenibilità. Ma in Italia rischiano di essere un’utopia. Che si infrange ora su nostalgie architettoniche, ora su pastoie burocratiche, ora pregiudizi ideologici e antindustriali. Senza stadi e senza vivai, altra incompiuta dell’economia calcistica, non si esce dalla crisi».

Per questo ci tocca rallegrarci se ospiteremo qualche partita degli Europei 2021?

«Le partite sono quattro, non poca cosa. Ma se vogliamo di più, dobbiamo investire per chiedere e ottenere. Non chiedere e ottenere per investire. Bisogna ribaltare un paradigma culturale».

A proposito di Europei, più volte lei ha parlato di legare Mancini e la Nazionale in un matrimonio indissolubile. Ma il cittì traccheggia, la Premier lo tenta. Come pensa di convincerlo?

«Ha un contratto che scade nel 2022. Se ragioniamo con logiche di mercato, la Figc non può concorrere con club che hanno risorse ingenti da mettere sul piatto. Ma io farò di tutto per tenerlo. Il mio vantaggio è la sensibilità di Mancini verso l’azzurro. Non ho nessun motivo per dubitare che l’orgoglio nazionale sia per lui un grande valore. Mi ha detto: quando vuole ne parliamo. E presto ne parleremo. Ci sono tutte le condizioni per dare continuità a un progetto di medio-lunga scadenza».

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Anche se nella partita entra Lippi come terzo incomodo?

«Il problema non esiste. Voglio metterla così. Noi abbiamo voglia di rafforzare il club Italia, ma non è un tema quello del direttore tecnico. Chiaro?».

Un altro suo vecchio pallino sono i play off. L’anno scorso sembravano il rimedio contro un’egemonia juventina lunga troppi scudetti. Quest’anno le cose sembrano andare diversamente, anche se la sproporzione tra la rosa bianconera e quella delle rivali è ancora tutta lì. La contendibilità dello scudetto dipende dai play off?

«Viene prima la riforma del calcio professionistico, semiprofessionistico e dilettantistico. C’è, per fare un esempio, una serie B con un turnover troppo alto: tre promosse e quattro retrocesse fanno sette posizioni calde. Poi dobbiamo capire in che modo ristabilire condizioni di pari opportunità, che non signi? ca impedire a nessuno, meno che mai alla Juve, di vincere. Discuteremo perciò anche di play off. Continuo a pensare che possano dare al calcio un appeal diverso».

Intanto i play off incombono sul futuro del campionato, come soluzione emergenziale, di fronte alla minaccia di una terza ondata della pandemia.

«Certo, la legge attribuisce alla Federazione il potere di modificare in corso la formula del torneo. Ma speriamo di non doverne fare uso. Mi dico che non accadrà. Siamo già passati nell’occhio del ciclone. Rispettando il protocollo, molte società hanno continuato a giocare con senso di responsabilità e in sicurezza, anche di fronte a casi di contagio del virus. Solo una partita è stata rinviata. Mi pare un bilancio positivo da difendere».

La sentenza del collegio di garanzia del Coni su Juve-Napoli non è la prova che qualcosa non va?

«Il collegio di garanzia ha un ruolo ben chiaro nella giustizia sportiva. È la nostra Cassazione. Ma la Cassazione è un giudice di legittimità. Non dovrebbe entrare nel merito e diventare un terzo grado di giudizio. Urge un chiarimento legislativo, per circoscrivere la giurisdizione. Altrimenti saremo costretti a ricorrere al Tar e poi al Consiglio di Stato contro le sentenze del Coni».

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La sentenza stabilisce che la quarantena soft, stabilita dal protocollo federale, non deroga alla quarantena hard, disposta dalla Asl in basa a una norma di rango superiore. Non le pare questo un giudizio di legittimità? Oppure la giurisdizione domestica del calcio vuole percepirsi come una zona franca, dove valgono regole pattizie in contrasto con quelle dell’ordinamento?

«Mai pensato questo. Faccio però notare che i pareri della Asl erano due, e di segno diverso. Ed erano stati valutati da due giudizi federali di merito, che hanno ritenuto applicabile il protocollo. Ma non intendo discutere della sentenza. Io pongo un problema di funzionalità del sistema di giustizia sportiva».

Il presidente juventino Andrea Agnelli dice, che se non proteggiamo gli investimenti delle squadre di vertice, non garantiamo lo spettacolo e non difendiamo gli interessi del calcio dilettantistico. Il suo pallino resta la Superlega, un campionato tra le grandi del Vecchio Continente. È un’ipotesi a cui lei guarda con curiosità, con sospetto o con terrore?

«È un’ipotesi che non considero proprio. E mi rimetto a quanto assicurato dall’Uefa: la Superlega non si fa. Ma non credo che Agnelli parlasse di quello. L’obiettivo è un altro: far crescere il calcio, rafforzare la Champions dal 2024, senza mortificare i campionati nazionali. Nessuno che ami il calcio potrebbe cavalcare rivoluzioni che modifichino gli equilibri della democrazia sportiva».

Come ricorderemo Paolo Rossi?

«Ho comunicato ieri alla moglie Federica che gli intitoleremo la sala del consiglio federale. Ma è solo l’inizio. L’accademia che nascerà al Salaria Sport Village porterà il suo nome. E con la Lega studiamo di intestargli anche la classifica dei marcatori. La memoria è un valore del calcio. E i gol di Pablito la portano in cielo». 

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