Gli arbitri, le buone intenzioni e i fatti

ROMA – Ci sono almeno otto richieste che il calcio, tutto, quello degli atleti e dei club, ma anche quello dei tifosi e dell’informazione sportiva, può fare agli arbitri, dopo il cambio ai vertici dell’Aia che coincide con una svolta. La prima riguarda il primato del merito. Da rimettere al centro del sistema, e non a parole. Vuol dire selezione di qualità, formazione professionale, ma soprattutto valutazione a cui ancorare il destino di una carriera, mettendo al lato cordate e corporativismi che hanno segnato l’ultimo decennio.

La seconda riguarda la cosiddetta transizione digitale: il ricorso al Var non può essere una variabile connessa al grado di cultura tecnologica dell’arbitro e al rapporto di riconoscimento disconoscimento tra chi giudica in campo e chi giudica davanti alla macchina. Se l’occhio elettronico è stato introdotto per risolvere i casi dubbi, tutti i casi dubbi vanno sottoposti a una verifi ca, di cui l’arbitro in campo è il giudice di ultima istanza.

La terza riguarda l’obbligo di motivazione: il divieto di parlare è ormai un paravento dietro cui si protegge l’irresponsabilità del potere. Se non è pensabile che gli arbitri siano sottoposti a un processo mediatico sulle loro decisioni, non è tuttavia ammissibile che non abbiano alcun dovere di renderne conto. Non solo al designatore, che decide autocraticamente, ma a tutto il movimento sportivo. Le decisioni assunte sui casi controversi devono essere pubbliche e intellegibili per chiunque, nelle forme di una trasparenza che il nuovo presidente dell’Aia dovrà dimostrare di saper costruire. Se non vuole disattendere gli impegni assunti, così come ha fatto il suo predecessore per oltre un decennio.

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La quarta riguarda la parità di genere, che va perseguita con decisione. Non come bandierina da appendere al petto una tantum, ma come strategia di integrazione concreta delle donne nella direzione di gara di partite maschili, e viceversa. Non ci sono ragioni per giustifi care discriminazioni, che sono il frutto di arretratezze culturali e che costituiscono un danno per la qualità dell’off erta arbitrale.

La quinta riguarda la necessità di rilanciare una vocazione, attraverso un reclutamento aperto e incentivi economici adeguati, non sostituibili con vecchi privilegi. Se gli associati all’Aia sono diminuiti di seimila unità, la ragione è anche in un’opacità del sistema che va disboscata.

La sesta riguarda la difesa dell’indipendenza degli arbitri dalle pressioni dei poteri, sportivi e non sportivi. È un obiettivo da perseguire non solo nel calcio professionistico, ma anche sui territori del dilettantismo, con una gestione trasparente e un ricambio della classe dirigente.

La settima riguarda la valorizzazione dell’esperienza: non è possibile che la carriera dei calciatori arrivi fi no e oltre i 43 anni di età, e quella degli arbitri si concluda senza deroghe a 45. L’aumento dell’età e il miglioramento degli stili di vita inducono a spostare l’asticella del pensionamento più in là.

L’ottava e ultima richiesta è un obiettivo di sistema: ci auguriamo che gli arbitri concorrano con il loro contributo e con le loro proposte a rendere il regolamento più logicamente coerente, con riferimento ai falli di mano e ai falli di gioco. Nonostante qualche correzione interpretativa, restano non pochi punti oscuri e controversi, sui quali sarebbe utile e necessario aprire un confronto con tutte le componenti del sistema, avvalendosi anche del contributo degli studiosi di discipline sportive e giuridiche. Su questi otto punti si misurerà la concretezza delle buone intenzioni, che hanno portato all’elezione di Alfredo Trentalange. Il Corriere dello Sport – Stadio vigilerà con la passione e l’indipendenza che fanno la sua lunga storia.

Alfredo Trentalange: "Il domani è già oggi"

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