Fulvio Bernardini, laurea in qualità

Da giocatore, Fulvio Bernardini, il popolare Fuffo, aveva pagato a caro prezzo i “piedi buoni”, i suoi piedi buoni. Era stato portiere, attaccante (ruolo che lo portò all’Inter per 150.000 lire) e poi centrocampista. Sul piano tecnico era decisamente sopra la media e si racconta che la sua esclusione dalla Nazionale di Vittorio Pozzo, dopo la conquista del bronzo nelle Olimpiadi di Amsterdam del ‘28, venne decisa proprio dal commissario tecnico per questa ragione: era così bravo che la squadra non poteva raggiungere il suo livello. Bernardini ha raccontato che un giorno Pozzo gli disse: “Lei gioca in modo superiore, in modo perfetto dal punto di vista della prestazione individuale. Gli altri non possono arrivare alla concezione che lei ha del gioco e finiscono per trovarsi in soggezione, dovrei chiederle di giocare meno bene. Sacrificare lei o sacrificare tutti gli altri?“. Italo Cucci, ex direttore di questo giornale e molti anni prima cronista al seguito del Bologna dello scudetto di Bernardini, ci spiega che «in realtà, il motivo era la difficoltà di legare un individualista come Bernardini col resto della squadra. Così mi disse Pozzo anni dopo. Il dottore era davvero bravo con i piedi, ma nel collettivo soffriva. Viene in mente la stessa storia di Baggio con gli allenatori della sua epoca».

I piedi buoni

Quando il “Dottore” passò dal campo alla panchina cercò giocatori come lui, dotati prima di tutto di grande tecnica. Da qui nacque la teoria dei “piedi buoni”, diffusa nel calcio italiano durante il breve periodo in cui è stato direttore tecnico della Nazionale, dopo il fallimento del Mondiale ‘74 in Germania. «Bernardini era un narcisista e sceglieva quei giocatori che avevano le sue stesse qualità. Voleva rivedere se stesso in quei ragazzi. Non parlava mai di schemi, di moduli, ma sempre e soltanto di giocatori. Nei suoi raduni oceanici pescò in tutte le categorie, chiamando anche il livornese Martelli, pur di raggiungere il suo obiettivo. E quando convocò Antognoni e Tardelli si capì perfettamente che nella scelta c’era la sensibilità del grande giocatore. Aveva intuito e notevoli qualità umane”, ci dice ancora Cucci.

I due scudetti

Bernardini ha vinto il primo scudetto della sua carriera a Firenze con una squadra dotata di uno straordinario talento sudamericano, portato in riva all’Arno dall’argentino Montuori (che giocava col 10) e dal brasiliano Julinho, giocatori che i fiorentini, anche quelli che non li hanno visti giocare, continuano ad amare. Ma il suo capolavoro è il Bologna, settimo scudetto nella storia rossoblù, con la squadra del “così si gioca solo in Paradiso”, parole attribuite al dottore dopo un 7-1 sul Modena un paio di anni prima della conquista del titolo. Il Bologna vinse lo scudetto nel ‘64 con lo spareggio dell’Olimpico contro l’Inter di Helenio Herrera. A fine partita, il telecronista Niccolò Carosio chiuse così il suo commento: “La prestazione del Bologna è stata così gagliarda e così convincente che tutti gli sportivi si inchinano e lo applaudono calorosamente”. Va ricordato che Dall’Ara, presidente del Bologna per trent’anni, scomparso alla vigilia di quello spareggio, faceva fatica a sopportarlo. Amava allenatori come Rocco e soprattutto Viani. Fra i due c’erano spesso dei battibecchi. “Io voglio il catenaccio metropolitano”, diceva il presidente. E Bernardini ribatteva: “L’allenatore sono io, prima si insegna a giocare al calcio e poi si vincono gli scudetti, ma poi, non prima”. «Non lo sopportava soprattutto per i modi raffinati di Bernardini, per la proprietà di linguaggio, per l’eleganza. Però, quando c’era da migliorare la squadra, Dall’Ara gli dava retta. Bernardini gli chiese Haller e il presidente andò di persona in Germania a prenderlo», ricorda Italo Cucci. In quel Bologna scudettato erano pochi i giocatori privi di tecnica. Tutti avevano un rapporto confidenziale col pallone, Haller, Nielsen, Fogli, Pascutti, Giacomino Bulgarelli. Era davvero un calcio da paradiso.

Antognoni come stella

A Bernardini venne affidata l’opera di ricostruzione della Nazionale, uscita a pezzi dal Mondiale in Germania e fu in quell’occasione che la teoria dei “piedi buoni” divenne la base delle sue scelte. Racconta Moreno Roggi, uno dei ragazzi che il Dottore fece debuttare in Nazionale. «Era il momento della grande Olanda e Bernardini cercava giocatori tecnici anche in difesa. I terzini, per esempio. Fece giocare Francesco Rocca a destra e il sottoscritto a sinistra perché tutt’e due spingevamo forte e i cross uscivano bene. Anche per il ruolo di stopper, passò da Zecchini a Francesco Morini e poi scelse Mauro Bellugi, che magari in marcatura non era forte come gli altri due, ma sul piano tecnico era superiore». Il simbolo dei “piedi buoni” era Giancarlo Antognoni. «Lo fece debuttare a Rotterdam, contro la più grande nazionale europea del momento e in quella partita Giancarlo fece due o tre cose pazzesche. Dopo quell’exploit era logico che Bernardini puntasse su di lui per la ricostruzione» spiega ancora Roggi. Di quel gruppo faceva parte anche Eraldo Pecci, altro iscritto a pieno titolo alla categoria dei piedi buoni. «Giocare a calcio era il suo credo, era un allenatore lungimirante». Eraldo aveva piedi e testa, in campo capiva tutto prima di tutti, come ha detto Cucci il Dottore cercava giocatori in cui potersi rivedere e Pecci era uno di questi. Ha fatto il calciatore a grandi livelli, altrimenti avrebbe sfondato nel cabaret. Racconta questa di Bernardini: «Fra i giocatori che sapevano giocare a pallone c’era un romagnolo trapiantato a Roma, Ciccio Cordova, ex laziale ed ex romanista. Cordova era in confidenza con Bernardini e ci scherzava: “Mister, a Roma dicono tutti che eri scarso quando giocavi”. Glielo diceva di continuo e un giorno Bernardini gli ha risposto: “A’ Ciccio, io ero scarso, ma correvo sempre più di te”».
 

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