E ora il ballo latino chiamato Champions

Con Real Madrid-Manchester City di stasera e Milan-Inter di domani l’Europa dei campanili entra nel vivo. Semifinali di Champions, partite d’andata. Si tratta, fatte le debite proporzioni, di una “Nba” pedatoria dalle cui arene emerge, netta, la figura di “un” LeBron James, ancorché di fresco conio: Erling Haaland. Il talento del muscolo. C’è poi un altro dettaglio: la sfida che il calcio latino, movimento culturale che storicamente coinvolge Francia, Italia, Portogallo e Spagna, lancia al resto del sistema, dove per “resto” s’intendono la complessità e la globalità di un pensiero che ha avuto nel fisico, e dunque nell’atletismo, lo stemma riassuntivo e distintivo. Attraverso la libertà di mercato, la sentenza Bosman del 15 dicembre 1995 ha talmente confuso e mescolato le scuole e gli stili che scrivere, oggi, di “inglesi” o “tedeschi” agevola il racconto, sì, ma non più, o non tanto, l’analisi. Se il City incarna il manifesto di un football contaminato da travasi tattici che ne hanno addolcito le rustiche radici, visto il bacino di riferimento, gli allenatori sono tutti dei “nostri”: uno spagnolo (Pep Guardiola), tre italiani (Carlo Ancelotti, Simone Inzaghi, Stefano Pioli). E latina rimane la maggioranza al governo dell’albo d’oro (su 67 edizioni: 1956-2022).

La storia e le tradizioni

Da una parte, la bellezza di 36 trofei, così distribuiti: 14 Real, 7 Milan, 5 Barcellona, 3 Inter, 2 Benfica, Juventus e Porto, 1 Olympique Marsiglia. Dall’altra, si risponde con 30, così suddivisi: 6 Bayern e Liverpool, 4 Ajax, 3 Manchester United, 2 Chelsea e Nottingham Forest, 1 Amburgo, Aston Villa, Borussia Dortmund, Celtic, Feyenoord, Psv Eindhoven, Stella Rossa. “Balla” il titolo della Steaua Bucarest: riesce difficile allontanarne la culla dalla geografia e dai protocolli dell’Europa dell’Est, ma nello stesso tempo non esiste nome più latino della Romania che l’ha nutrita e promossa. C’era una volta l’eliminazione diretta. La roulette russa che non faceva prigionieri. Dall’edizione 1992-93 la Coppa dei Campioni diventò Champions League e dal 1997-98, confine vitale e commerciale, è stata aperta alle squadre “non campioni”: sino a un massimo di cinque. Gravato da formule astruse, e spesso ingombranti, il numero di partite è rimbalzato dalle 18 globali che suggellarono la doppietta del Milan sacchiano (1989, 1990) alle 19, addirittura, che in un’unica stagione scortarono e premiarono un altro Milan, quello di Ancelotti (2003). Qua e là abbiamo accarezzato favole come il Nottingham di Brian Clough, salvo arrenderci agli orchi del Real: nel Novecento, le prime cinque; nel Duemila, cinque delle ultime nove. E occhio, per concludere, ai centravanti. In assenza di Victor Osimhen, che con i suoi 23 gol ha firmato lo scudetto del Napoli, spopolano Haaland del City e Karim Benzema dei blancos, mentre nell’Inter è tornato ad agitarsi Romelu Lukaku. E il Diavolo, in ansia per l’adduttore di Rafael Leao, si aggrappa alle malizie di Olivier Giroud. È la bellezza selvaggia del calcio: proprio quando ci sembra di sapere, succede sempre qualcosa. E, per questo, smettiamo di sapere.

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