Dove Pjaca colpiva 20 pali A casa del “predestinato”

Su questo campetto spelacchiato si tramanda l’antica leggenda: “Incredibile, lo ha colpito venti volte di fila”. Borovje, incastro di casermoni popolari ed edilizia residenziale, guarda con distacco il rumore del centro di Zagabria: si vive tranquilli, qui cattolici e musulmani giocano a calcio gomito a gomito. Marko Pjaca, baby prodigio che ha attraversato il confine, è nato ed è cresciuto in questo quartiere placido della capitale croata. Anni prima di arrivare a Torino con le stimmate del predestinato, passava lunghe giornate all’aria aperta: “Quando facevamo le partitelle tutti lo volevano in squadra”, racconta un amico di infanzia. Chiede, supplica che non appaia il suo nome: c’è un rapporto puro da preservare, per lui e per tanti altri della zona Pjaca resta soltanto Marko. Non può dimenticarsi, però, di quella scommessa a nove anni: “Si era giocato un gelato, diceva che avrebbe colpito il palo da metà campo venti volte”. Non è difficile immaginare come sia andata, di dolci ne ha vinti parecchi negli anni. Su un muro brilla lo stemma della Dinamo, ai ragazzi che giocano ancora nel campetto domani il mondo sembrerà alla rovescia: Pjaca torna a casa, ma contro di loro.

parte dai tram — A Borovje tutti sanno di Marko, anzi tutti sanno di tutti. Così, se è arrivato qualcuno a far domande sul campioncino, può capitare la buffa sorpresa: in un caffè sotto alla casa di famiglia, spunta proprio lui, passato a trovare i genitori in una pausa del ritiro in nazionale a inizio settembre. È stato avvertito dell’intruso dal barista: “Non posso farti fare un giro, devo stare con i miei”, si scusa con educazione. E anche mamma Visnja, professione medico, non vuole esporsi: la star è solo il figliolo. Poco male, questi luoghi attorno parlano molto di lui: nella scuola elementare, ad esempio, ricordano un bimbo vispo con una palla in mano e quei 5 in pagella, voto massimo da queste parti, restano agli atti. Accanto svetta una bella moschea, l’unica di Zagabria, la più grande in Croazia. Poi, a due passi dal Nur, società calcistica della comunità araba, ecco il campo dello Zet, acronimo di Zagrebacki elektricni tramvaj, squadra operaia dei ferro-tramvieri della città. Spogliatoi alla buona, strutture abbandonate e un vecchio custode con birra in mano che mostra ciò che resta dell’erba su cui correva il baby Marko. È stata la prima squadra di Pjaca, quella da cui è partito bambino per unirsi alla Dinamo e a cui è tornato ragazzo prima di spiccare il volo. Appeso sulla porta in sede, un decalogo di massime che i giovani devono mandar giù a memoria. Ce n’è una che sa tanto di Juve, quasi un segno del destino: “Il vincitore ha sempre un piano, il perdente sempre una scusa”. Adesso allo Zet non se la passano bene e il custode non vede da tempo un altro fenomeno: “Sono bravi i nuovi, ma Marko era unico”, racconta tra un sorso e l’altro.

Marko Pjaca con la maglia della sua Croazia. Ap

Marko Pjaca con la maglia della sua Croazia. Ap

mai piangere — Alla Dinamo, invece, lo hanno coccolato presto, già a dieci anni, e qui le strutture per allenarsi sono di un altro livello. Del resto l’Academy, attaccata allo Stadio Maksimir che domani tornerà a ribollire, è una delle migliori d’Europa. Zoran Joksovic, primo tecnico delle giovanili, l’ha allenato per due anni, stagione 2006-07 e 2007-08, e ci ha messo 5 minuti per dargli la fascia: “Era capitano, miglior giocatore e capocannoniere, ma in generale un bimbo modello: ascoltava, capiva, non rispondeva all’autorità e questo l’ha imparato in famiglia”. E poi un altro ricordo dolce, che molto racconta di un ragazzo con i piedi ben saldi a terra: “La cosa che mi ha colpito di Marko da piccolo – aggiunge Joksovic – è che non piangeva mai. Nemmeno quando le cose andavano male”. Pare che anche questo sia figlio di una rigida educazione sportiva: “La mamma era nazionale di judo, il padre di lotta: gli hanno insegnato il valore dell’allenamento”.
verso l’esame — Chi lo conosce bene e chi lo ha soltanto sfiorato rigira sempre su un concetto quasi banale: Marko è un ragazzo di buona famiglia. La sua è una felice storia borghese. Ad esempio, gli insegnanti allo Sportska Gimnazija, liceo sportivo nel quartiere Tresnjevka, non dimenticano quando mescolava con rigore lezioni e allenamenti. “Avete presente un calciatore? Lui è l’esatto opposto. Quando era già in prima squadra, gli dissi “comprati un’auto grande”. E lui mi rispose: “Non mi serve””, ricorda Sasa Ivanisevic, suo professore di educazione fisica. Tra le palestre all’avanguardia si praticano 62 discipline e la Croazia forgia le menti e i cuori degli atleti che verranno: “Lo sport per noi è una cosa seria, un modo per portare l’orgoglio croato alto nel mondo”, spiega il preside, Slobodan Matkovic, inventore del programma governativo che più di 20 anni fa ha fatto nascere il liceo. Da queste parti Marko ha collezionato voti buoni e infranto molti cuori: “Era attento in classe e con le ragazze un veleno…”, scherza Branka Pavlic, l’insegnante di italiano. È convinta che l’allievo maneggerà presto la nostra lingua, mentre non ha dubbi su ciò che sarà tra qualche anno: “Diventerà un campione ammirato in tutto il mondo, ma si iscriverà giustamente all’Università”. Intanto, Pjaca deve fare in fretta con la laurea in bianconero: l’esame di domani, tra la sua gente, farà battere il cuore a lui e a mezza Zagabria.

dal nostro inviato Filippo Conticello 

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