Di Chiara: “Pioli come Ancelotti, trasmette tranquillità. Baggio magico”

Quartieri romani tra palloni e gol. Anni ’70, Roma, Alberto Di Chiara, attaccante di razza e sognatore per natura. Tutto è cominciato così. Una carriera bella come quelle partite dal ritmo incalzante. Alberto ha rotto il ghiaccio con i giallorossi guidati dal ‘Barone’ Nils Liedholm. Con la maglia del Lecce poi ha conquistato una promozione storica. A Firenze un brasiliano, Sebastião Lazaroni, gli ha fatto scoprire che un assist perfetto può essere dolce come un gol. Da attaccante a esterno a tutta fascia. A Parma la metamorfosi si è compiuta portando con sé coppe e momenti che restano impressi nella mente. Come quel pomeriggio di Perugia nel maggio 2000 quando Di Chiara non giocava più, ma restava ancora una volta sorpreso dal calcio e dalla sua imprevedibilità. 

Alberto, lei ha fatto un po’ di tutto dopo il ritiro: qual è stata l’avventura più bella?

Tutto tranne l’allenatore! Quando ho smesso mi sono spostato sulla comunicazione. Ho il tesserino da giornalista pubblicista. Per cinque-sei anni ho curato un editoriale su “La Nazione”. Sono stato dirigente del Perugia per otto stagioni. Mi è stata data questa opportunità dopo il ritiro nel 1997. Volevo andare a giocare nei New York MetroStars di Roberto Donadoni. Ricordo il viaggio in America insieme a Luciano Gaucci e al direttore sportivo Ermanno Pieroni. Alla fine ho accettato la proposta del presidente e sono rimasto. Ho fatto da consulente tecnico e da addetto stampa. Sono rimasto a Perugia fino al 2004.

Troppo stressante il mestiere dell’allenatore?

Lo stress dipende da come affronti le situazioni. Stare in panchina è particolare. Sei in prima linea. Stare dietro le quinte è diverso. Nel 2013 Giuseppe Giannini mi ha proposto di guidare la nazionale del Libano insieme a lui, ma non è mai partito come progetto.

Qual è la principale occupazione oggi?

Lavoro per l’emittente Italia 7, gruppo editoriale. Ho una scuola calcio allo Scandicci. Tre anni fa è nata l’Alberto Di Chiara Academy dove abbiamo più di 200 ragazzi, è un bel settore giovanile. Poi mi sono candidato per le comunali a Forte dei Marmi per lo sport. Non stiamo mai fermi. C’è sempre il calcio nella mia vita.

Com’è nato il suo amore per il pallone?

Ho avuto la fortuna di crescere come attaccante nel Bettini Quadraro, una squadra di quartiere a Roma, da dove sono usciti giocatori come Giancarlo De Sisti, Francesco Rocca, Ciccio Graziani. Ho esordito vincendo una Coppa Italia nel 1981, al primo anno di Falcão, avevo 16 anni e mezzo. Era la Roma di Nils Liedholm, Roberto Pruzzo, Agostino Di Bartolomei e Bruno Conti. Ci ho giocato per due anni, poi sono andato alla Reggiana in B e quindi al Lecce dove giocavo da trequartista agli ordini di Eugenio Fascetti.

Lei nasce attaccante e chiude terzino: come è avvenuta questa metamorfosi?

Da ragazzo facevo tantissimi gol. Ero veloce e tecnico. Nel corso della carriera sono andato arretrando. Alla Fiorentina il primo a schierarmi esterno è stato Sven-Göran Eriksson nel 4-4-2. Il cambiamento radicale è avvenuto nel 1990 con Sebastião Lazaroni antesignano della moda di portare un attaccante in difesa come succede a Cuadrado nella Juve. Poi sono passato al 3-5-2 affinato da Nevio Scala nel Parma.

Arretrare in campo le ha dato una prospettiva diversa sul gioco?

Chi nasce attaccante e diventa terzino ha maggiore tecnica rispetto ad un difensore puro. Per giocare esterno tutto campo bisogna avere una capacità polmonare importante perché devi fare tutta la fascia.

Che ne pensa dello stato di salute del calcio italiano?

Dal 2006 in poi il nostro calcio ha fatto un passo indietro. La Serie A non è più il campionato numero uno, Premier League e Liga vengono prima. Ce la giochiamo con Bundesliga e Ligue 1. Negli Anni ’90 eravamo protagonisti assoluti: in A venivano a giocare gli stranieri migliori, i calciatori italiani erano simboli della Nazionale. Nel 2006 c’erano Francesco Totti e Alessandro Del Piero, Fabio Cannavaro e Gianluigi Buffon, lo stesso Andrea Pirlo. Dal 2010 in poi abbiamo perso tanto. Giorgio Chiellini e Leonardo Bonucci rappresentano la fine di un’epoca. Roberto Mancini ha fatto nascere le rose nel deserto vincendo un Europeo insperato. Spesso l’entusiasmo e il gruppo compensano la mancanza di grandi individualismi tecnici. Se ti rilassi però vieni eliminato anche dalla Svizzera e non vai al Mondiale.

Che idea si è fatto della Roma di José Mourinho? Quanto peserebbe la vittoria della Conference League?

Mou è un grande comunicatore. Con la squadra che aveva in mano e in un campionato che non è di altissimo livello forse ha fatto meno di quello che ci si aspettava ma ha compensato con la finale contro il Feyenoord. È bravo a nascondere i difetti e i problemi di una squadra che non ha espresso un grande gioco e non ha avuto continuità. È riuscito a creare un gruppo coeso tra tifosi, società e squadra. Le parole però arrivano fino a un certo punto, poi bisogna portare a casa qualcosa, la Conference in questo caso.

Il Lecce è tornato in Serie A: quanto le fa piacere?

È una piazza molto importante. Ci sono arrivato molto giovane. Io e mio fratello Stefano abbiamo avuto la fortuna di raggiungere nel 1984-85 la prima promozione in A nella storia del club. Lecce è affamata di calcio. Quando noi giocavamo in prima squadra, nella Primavera c’erano giocatori come Antonio Conte, Francesco Moriero e Luigi Garzya. Questo fa comprendere il livello dei settori giovanili di allora. 

Oggi Conte allena: se lo aspettava oppure è stato sorprendente?

Dimostrava già grinta e caparbietà. Si capiva che sarebbe potuto diventare un buon allenatore.

Precedente Da Osimhen a Maignan e Bremer, ecco i 5 MVP della stagione Successivo CLASSIFICA GIRO D’ITALIA 2022/ Juan Pedro Lopez maglia rosa, Bardet è fuori!

Lascia un commento