De Silvestri: “È un Bologna ad alta qualità. Mihajlovic? Non sono il suo pupillo…”

Il difensore: “Ci sono giovani con grande potenziale, li aiuterò a crescere. Non seguo Sinisa, per due volte lui è venuto dov’ero io…”

Dal nostro inviato Matteo Dalla Vite

13 ottobre – Castedebole (BO)

Il “Parlar d’altro” con Lorenzo De Silvestri è un piacevole distanziamento dalle calcio-banalità. Del resto Lollo ha semplicemente questo nel curriculum vitae: laurea in Economia Aziendale presa da poco, 4 lingue in testa, un passato nell’atletica, nella ginnastica artistica, nel nuoto e nello sci di fondo “disciplina in cui vinsi anche un Trofeo Topolino per la gioia di mio papà Roberto, che era contrario al calcio ma che poi quando ho cominciato a conquistare spazi si è appassionato anche lui…” sorride. Il tutto condito da un amore forte per i viaggi: “Quando smetterò di giocare, la prima o la seconda cosa che farò sarà andare a New York: da turista e per la maratona”. Il fatto, poi, di essere per la quarta volta giocatore di Mihajlovic, lo distingue ancor di più: è un affare né per molti e né da tutti. “Eppure…”.

Eppure molti la credono il pupillo di Sinisa.

“Detto che delle etichette in fondo me ne frego, un po’ mi infastidisce che io passi spesso per il “cocco” di Sinisa o che si pensi che ci sia una via preferenziale. Fra noi c’è un rapporto importante di cui vado orgoglioso ed è vero che nel calcio dev’essere successo ben poco che due si ritrovino per ben 4 volte nella stessa squadra. Però: in due occasioni lui è venuto dov’ero già io. Quindi siamo due a due…”.

La prima volta: Firenze.

“E lì venne lui da me… Con Prandelli avevo già giocato la Champions e raggiunto la Nazionale. Ma dovevo ancora migliorare e crescere: e non lo capivo. Sinisa non mi faceva giocare, mi fece fuori: fu la classica terapia d’urto che apre gli occhi. Era un periodo in cui avevo lacrime, parlavo da solo: a volte questo sport fa così…”.

Alla Samp?

“Ricordo il suo discorso prima di andare al Milan: quell’anno andammo in Europa, fu un campionato in cui ci martellò costantemente. Alla fine ci disse che era orgoglioso di noi. A Torino? Il giorno dopo il suo esonero, e senza che ci mettessimo d’accordo, ci ritrovammo in una manciata di compagni al campo a salutarlo. Sembravamo tutti vecchi amici”.

Qui lo ha ritrovato «massacrante» come sempre?

“Certo. A Torino ho passato anni belli, ma quando poi ho saputo che mi voleva davvero il Bologna di Sinisa, beh, ho fatto di tutto per raggiungerlo aprendomi un nuovo tragitto di vita. Calcistico, mentale, culturale. Nella sua battaglia contro la malattia, Miha ci ha fatto riflettere sulla vita. Tutti, nessuno escluso. Sinisa picchia su una questione: l’atteggiamento. Quello non va sbagliato da nessuno”.

Come vorrebbe che fosse il suo viaggio bolognese?

“Una bella scoperta, anche di me stesso. Mi sento ancora molto giocatore, anche se la grossa parte è alle spalle. Ho capito due cose: sono arrivato in una struttura che, in ogni angolo, ha un’organizzazione super oltre a un centro sportivo all’avanguardia. Due: qui c’è un’altissima qualità nei giovani, un potenziale enorme. Io un loro tutor? Avere esperienza è anche questo: mettersi al servizio degli altri. Un calciatore vero si vede nei momenti difficili, come li supera. Ne ho vissute tante e sono nella fase in cui posso facilitare la crescita di tanti ragazzi”.

Ecco il punto: l’upgrade dei tanti baby sarà decisivo.

“C’è un materiale qualitativamente incredibile. Davvero. Giovani bravi ma soprattutto con etica, predisposizione al lavoro, umiltà. Sinisa ha chiesto di superare i 47 punti dello scorso anno: questo intanto è l’obiettivo. L’Europa? Non guardiamo la partita di Benevento: ne ho viste mille in cui non merita di vincere chi vince. Il lavorare sui giovani va sostenuto: la loro crescita assieme all’aiuto di noi esperti vedremo dove ci porterà. Credo nel miglioramento: nei fatti”.

In città, dopo il mercato e l’inizio del campionato, c’è un po’ di scetticismo.

“Onestamente non l’ho notato. Anzi ho visto che la tifoseria a Bologna è per bene, educata, intelligente, che capisce ciò che si sta facendo qui”.

Lei è laureato, disciplinato da anni di pratiche sportive: ha mai fatto una follia vera?

“Magari ho fatto tardi la sera, da più giovane: ma mascheravo tutto con la mia esuberanza fisica in allenamento”.

Da grande non farà l’allenatore, giusto?

“Intanto da giocatore voglio superare le 400 partite in Serie A. La laurea l’ho presa anche per far felice mia madre e comunque sì, mi vedo più nel calcio con giacca a cravatta che sul campo: ho tanti amici che le indossano, io non posso ancora metterle e rosico…”. (ride).

Il Sassuolo domenica, poi la Lazio: pensieri e amarcord?

“La squadra di De Zerbi ha un’identità precisa, complimenti a loro. Ma anche il Bologna ce l’ha, solo che siamo stati meno fortunati finora. La Lazio? Due pensieri: di come ero io e di Gabbo, per il quale il ricordo è sempre vivo”.

Teme un altro lockdown e quindi ancora stadi sempre più… Grand Canyon?

“No, ma vedo tanta confusione. Di nuovo troppa. Una cosa è certa: gli stadi senza gente sono un pianeta troppo a parte. Quando feci uno dei miei viaggi più belli, quello sulla Route-66, mi colpirono molto le cosiddette “Ghost-town”, le città abbandonate. Gli stadi senza tifosi sono così: ma non c’è nulla di bello”.

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