De Rossi e Mancini: “Tanti fanno i fenomeni, lui è un maestro che rende il calcio semplice”

Dopo l’esperienza all’Europeo, l’ex centrocampista racconta a Sportweek il suo rapporto con il c.t. azzurro

Daniele De Rossi nella lunga intervista rilasciata a Sportweek oggi in edicola con la Gazzetta spiega le motivazioni che lo hanno spinto a lasciare il gruppo azzurro, racconta la grande cavalcata all’Europeo, i suoi progetti futuri e le sue idee di gestione del gruppo quando avrà una squadra tutta sua da allenare, le polemiche con gli inglesi che ritiene inopportune, il rapporto con la Roma, le previsioni sul prossimo campionato, ma anche il Covid che lo ha colpito e tanto altro. Negli stralci che seguono il suo rapporto con Mancini e lo staff azzurro.

Riavvolgiamo il nastro: come è nata la possibilità di entrare nello staff di Mancini?

“Quando lasciai la Roma, il mister mi invitò a casa sua e mi offrì di diventare un suo collaboratore. Lo ringraziai, ma rifiutai perché avevo in testa un sogno: giocare con la maglia del Boca Juniors… Mi guardò come se fossi matto, ma mi lasciò una porta aperta: ‘Anche il giorno prima che cominci l’Europeo, se avrai voglia di unirti a noi chiamami. Ci serve uno come te'”.

Beh, la tua voglia l’hai dimostrata unendoti al gruppo senza percepire compenso. Un bel gesto…

“Avrei pagato io per fare questa esperienza. Tra Covid, corso allenatori a singhiozzo, patentino rinviato, avevo bisogno di iniziare”.

“Mi sono detto: non devo fare troppo il freddo, cambiando il rapporto con giocatori che conosco da anni, ma neanche essere il compagnone di una volta. Sicuramente saranno bravi loro a non coinvolgermi e a non mettermi in difficoltà. Coverciano, pronti via: ‘Bella Daniè, l’hai portata la PlayStation?’. E meno male che puntavo sulla loro sensibilità (ride, ndr). Il timore più grande però era entrare in uno staff collaudato. Non volevo pensassero che fossi lì per farmi vedere, scalpitare o rubare spazi. Preoccupazioni inutili: i valori umani di questo gruppo sono così solidi che non esistono gelosie. C’è una tale armonia che mi sono sentito sempre libero di dire la mia. Giocatori e staff sono stati una cosa sola, ma quando 60 persone sembrano tutte belle e buone il merito principale non è di quelle 60 ma di una sola, quella che le guida”.

Cosa ti lascia questa esperienza con Mancini?

“Tantissimo. A volte in giro c’è un po’ di ‘fenomenite’. C’è chi parla di calcio come se fosse una cosa per scienziati. Mentre i maestri veri, come Mancio, lo semplificano. Riconoscere la qualità dei giocatori, utilizzarli nel proprio ruolo, metterli a proprio agio a livello umano, allenarli bene, saper preparare la partita evidenziando i punti deboli degli avversari e i punti forti tuoi: il calcio alla fine è questo. Poi certo c’è qualcuno che innova ed è più bravo di un altro. Io proverò a metterci del mio, ma quelli che hanno stravolto il calcio si contano sulle dita di una mano”.

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