De Laurentiis, diciotto anni per il sogno: il suo Napoli è pronto

Mancavano i palloni e pure le magliette: perché certe imprese nascono dal basso, dal sottoscala, e ci vuole tempo per provare a realizzarle, sentendo il venticello caldo della storia che t’accarezza. Quando il Napoli Soccer di Aurelio De Laurentiis prese le scartoffie e uscì dalla Fallimentare, c’era la sensazione d’essere finiti in una città senza calcio e senza tempo: e adesso che – ancora e di nuovo – c’è un sogno che sfila in quella bolla anche un po’ magica, la realtà pare possa accompagnare la fantasia. Da Paestum in su, l’estate rovinosa del 2004, è stato un gran bel viaggiare – le Coppe Italia (tre), la Supercoppa di Doha, gli scudetti intravisti e spariti per dettagli, per sfortuna, per superiorità altrui o per fantasmi che ancora s’aggirano negli alberghi – ma in diciotto anni, lo dice pure la legge, ormai c’è la maturità per starsene dentro a questa fiaba e godersela con il ragionevole distacco che Luciano Spalletti sistema come frontiera. «Siamo contenti di ciò che stiamo realizzando ma sappiamo anche che molto resta fare: noi inseguiamo vittorie per regalare gioia ai nostri tifosi ma rimanendo con i piedi per terra».

Gli inizi

È andata come si sa, dalla C alla Champions, partendo dai 60 mila che aspettarono il Cittadella al San Paolo per ritrovarsi nel tutto esaurito da 54 mila con l’Ajax al Maradona: è un’altra vita, ormai, è cambiato il calcio non solo l’atmosfera, c’è uno stadio invecchiato, rinfrescato, reintitolato al Re scomparso due anni fa e rimpicciolito; e c’è una dimensione nuova, non inedita, perché “kolossal” ce ne sono stati, pur senza il lieto fine. 

Gli indizi

Il Napoli che Reja e Marino guidano in A, nel biennio 2005-2007, anestetizza il dolore sordo del passato, funge da ponte verso un orizzonte abbagliante, straccia via quell’espressione di disagio che si coglie. Le luci della ribalta le fa accendere Mazzarri, che sta incollato al Milan (2011), va in Champions – ed è la prima volta – e poi lascia che si riscopra il delirio di massa con la conquista della Coppa Italia.

Respiro

Però la svolta epocale, il cosiddetto respiro internazionale, appartiene a Benitez e a Bigon, a quel mercato pirotecnico che, con la cessione di Cavani e l’immissione di un’altra cinquantina di milioni di euro che Adl, dal suo quartier generale al Quirinale, rende disponibili, porta Reina e Albiol, Higuain e Callejon, Martens e Zapata che sa di investitura con un’altra Coppa Italia e una Supercoppa, i trionfi per mitigare due campionati da Europa League. La Grande Bellezza nasce con Sarri e con Giuntoli, è un triennio onirico, che sa d’illusioni svanite chissà come e chissà perché a Udine (nel 2016) e poi a Firenze (nel 2018), bracci di ferro con il destino che lasciano cicatrici ancora visibili.

Show must

Ancelotti è il passe-partout per una felicità troppo breve, ridotta a parentesi – un anno e mezzo – e mandata in frantumi al primo incrocio pericoloso, senza credere fino in fondo ad un progetto nel quale la rivoluzione suggerita da un allenatore simile a Re Mida annunciava il declino di un’epoca e la fine di un ciclo. L’erede, Gattuso, ha lasciato una Coppa Italia e quel velo di sofferta malinconia per un settimo e un quinto posto, il rimpianto per mercati in era Covid da 150 milioni di euro, un rapporto sempre border line, anzi opaco. Il Napoli ha messo le sue tende in Europa nel 2010, Spalletti gli ha restituito il luccichio del danaro che la Champions League fa piovere con un terzo posto, prima che venisse rescisso il cordone ombelicale con leader, simboli e bandiere e che la rivoluzione chiudesse le crepe umorali e fornisse un’altra esistenza: primo in campionato, primo anche in Champions, con Kvara e Kim, con Raspadori e il Cholito, con Anguissa e con Lobotka. Sembra un film: che trascina nell’ignoto ma che sa di favola.

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