Dall’Arsenal alla sua San Benedetto: Mannone aspetta una seconda chance

I cortili assolati tutto il giorno, quel rumore di fondo di ragazzini che corrono dalla mattina alla sera i guanti sfiniti dalle pallonate. Paesaggio di Sicilia, dove è cominciata la storia della famiglia Mannone: il padre faceva il portiere, il figlio… altrettanto mille chilometri più a nord. Bergamo e l’Atalanta sono stati il trampolino di lancio per il piccolo Vito che a Londra si è preso la scena e gli applausi che l’Italia non sembrava intenzionata a dargli. Con l’Arsenal di Arsène Wenger ha toccato il cielo con un dito, col Sunderland ha vissuto tutto quello che sognava. Poi Stati Uniti, Danimarca e Francia: le altre tappe di un viaggio lungo e bellissimo sempre col pallone tra le mani. Oggi Mannone si allena nella “sua” San Benedetto del Tronto e aspetta che arrivi il momento buono per farsi trovare pronto, come ha sempre fatto tra i pali in vent’anni di carriera.

Vito, che cosa si aspetta dalla sua nuova sfida?

Mi tengo in forma. Sono tornato a San Benedetto del Tronto, dove ho conosciuto mia moglie tanti anni fa: qui abbiamo la casa di famiglia. Sono fiducioso, vengo da 18-19 anni di carriera ad alti livelli. Sono pronto a dimostrare il mio valore. Sento cosa accade in Italia, ho ricevuto tante offerte dall’estero. Devo parlarne in famiglia e prendere una decisione.

Com’è nato il suo feeling con la porta fin da ragazzino?

In maniera molto naturale! Ho giocato un paio di partite come ala destra. Alla fine della seconda c’era qualcosa che mi attirava, di magico nella divisa del portiere. Dissi a mio padre di chiedere al mister di provarmi tra i pali. Anche lui lo aveva fatto da ragazzino nelle strade siciliane, in famiglia però c’erano pochi soldi e si è dovuto mettere a lavorare.

Che tipo di legame c’è tra lei e l’Italia oggi?

La mia famiglia è emigrata nel nord Italia, così io sono nato e cresciuto a Desio in provincia di Monza. Le mie origini però sono profondamente meridionali. Quando chiudevamo la porta di casa ci sembrava di stare in Sicilia, con i nonni parlavamo in dialetto. Ho fatto per tanti anni la spola tra Milano e Bergamo: i miei genitori facevano avanti e indietro per me, tutti i loro sacrifici mi hanno permesso di crescere nel settore giovanile dell’Atalanta.

Lei però non ha mai giocato ad alti livelli in Italia: le pesa?

Sì e no, c’è un po’ di rammarico. Ci abbiamo perso da entrambe le parti: io, ma anche loro perché so cosa avrei potuto dare e quello che posso dare ancora. Ho un sogno nel cassetto fin da bambino. Mi sono fatto le ossa all’Atalanta con il desiderio di giocare in Serie A. Non potevo immaginare che a 16 anni sarei andato a giocare nell’Arsenal in Premier League. In Italia facevano fatica a buttare dentro i giovani: purtroppo succede ancora oggi. Così ho scelto di partire.

Che cosa le ha dato l’Inghilterra dal punto di vista umano?

Tutto! Quando sono arrivato ero un ragazzino. Poi sono diventato un uomo e ho messo su famiglia. Sono orgoglioso per il percorso che ho fatto. È dura arrivarci, è dura restarci. I miei 15 anni in Inghilterra sono stati davvero bellissimi.

Che cosa ricorda di Arsène Wenger? Era sempre così tranquillo come sembrava?

Nessuno lanciava i giovani come lui. Ha creduto in me dal primo giorno in cui ho messo piede all’Arsenal. Ho imparato il suo stile di gioco e di vita. È l’uomo che mi ha portato in Inghilterra e mi ha fatto debuttare. In panchina sembrava sempre molto tranquillo, quasi incapace di scoppiare. Garantisco che lo faceva, però mai subito dopo la partita. Era molto analitico. Quando ha lasciato l’Arsenal tanti pensavano che sarebbe stato facile sostituirlo, ma non è stato così.

Mi racconta il suo giorno più bello all’Arsenal?

Ce ne sono stati tanti! Sicuramente quelli dei debutti in Champions League e in Premier. Ero piccolo, li ho vissuti come un sogno. Ne vado orgoglioso anche per i miei genitori che purtroppo non ci sono più. Facevano tre lavori al giorno tutti e due per andare avanti. Purtroppo mio padre non c’era più il giorno del mio debutto in Premier, spero che lo abbia visto dal cielo. Mia madre invece è mancata cinque anni fa. Anche mia moglie ha fatto grossi sacrifici per me.

C’è una partita che non ha mai dimenticato?

Quella contro il Fulham: era la mia terza gara coi Gunners, i tifosi mi scrivono ancora per ringraziarmi per quel giorno. Ero un ragazzino di vent’anni che si era preso la scena. Vinsi il premio come “Man of the match” con 11 parate. Ero uscito dal nulla. In campo c’eranoFabregas e Van Persie, ma quel giorno io sono stato decisivo per vincere.

Chi le ha insegnato di più nello spogliatoio dell’Arsenal? Chi era il più matto invece?

L’Arsenal degli Invincibili è stato una palestra di vita: quello che vinse da imbattuto la Premier League nel 2003-04. Poi nel 2005 feci un provino con Wenger e la prima squadra. C’erano tantissimi campioni: da Jens Lehmann a Sol Campbell e Ashley Cole, da Patrick Vieira a Robert Pires, poi Fredrik Ljungberg e Thierry Henry. Di giocatori un po’ sui generis ne ho incontrati tanti: su tutti Emmanuel Eboué, Emmanuel Adebayor e Alexandre Song. Indimenticabili!

Com’era Henry?

Un giocatore strepitoso con classe infinita. Una bella persona che incontro sempre molto volentieri. Al mio primo anno mia mamma mi accompagnava fino al campo di allenamento: ricordo che si fermava sempre a parlare con noi in italiano, se lo ricordava dai tempi della Juventus.

Lei ha giocato con Olivier Giroud: l’ha sorpresa vederlo così trascinatore al Milan?

Un bravissimo ragazzo, un grande giocatore. Sotto porta era forte, non sbagliava mai. È sempre stato sottovalutato ingiustamente. Sapevo che al Milan avrebbe fatto bene, da tifoso rossonero poi sono contento il doppio per Olivier.

Passando ai portieri, lei si è giocato il posto da titolare con Wojciech Szczesny: che ragazzo era?

Un matto! Però era un ragazzino, ora ha messo la testa a posto. C’era Lukasz Fabianski. Eravamo tutti e tre giovani, talentuosi e ambiziosi: Wenger lo sapeva. Nel 2013 sono passato al Sunderland. Quando ho giocato contro l’Arsenal dopo la gara mi ha invitato nel suo ufficio per farmi i complimenti: era contento che fossi diventato un grande portiere.

Il suo Arsenal avrebbe potuto vincere qualcosa in più? Come lo vede oggi?

Il rimpianto c’è! Al arrivo nel 2005-06 l’Arsenal ha perso la finale di Champions contro il Barcellona: quella è stato il primo trofeo sfumato, poi ce ne sono stati altri. Penso che Mikel Arteta sia l’uomo giusto. Sta dimostrando di essere un ottimo allenatore, bisogna dargli tempo. È cresciuto con Pep Guardiola al Manchester City: è un valore aggiunto.

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