Dalla guerra al calcio italiano, Karamoko: “Se hai un sogno, credici”

Arrivato in Italia nel 2017 a bordo di un barcone, il guineano ex Padova si racconta a Sportweek: “M’ispiro a Kanté e Barella, voglio arrivare in Serie A”

Giacomo Detomaso @gdetomaso

13 marzo – Milano

Cherif Karamoko sorride. Porta la mascherina, ma si legge negli occhi la gioia di questo ragazzo di vent’anni, nato in Guinea francese, mentre esplora la redazione della Gazzetta. “Quanto è grande qui”, esclama. È la sua seconda volta a Milano, nella prima voleva a tutti i costi vedere San Siro. È venuto a trovarci per parlare del libro scritto con Giulio Di Feo, Salvati tu che hai un sogno. Sono le ultime parole che il fratello maggiore Mory gli disse dopo avergli infilato l’unico giubbotto salvagente rimasto e prima di scomparire nel Mediterraneo. Nel 2019, a due anni dal naufragio di quel barcone salpato dalla Libia, da cui solo 23 persone su 143 sono sopravvissute, Karamoko ha debuttato in Serie B col Padova, contro il Livorno. I suoi occhi, che oggi si posano sulle foto dei grandi dello sport, hanno visto cose terribili: ben prima del fratello aveva perso il padre, vittima della guerra tra etnie che spacca in due il suo Paese, poi la madre, uccisa dall’ebola. Hanno visto chilometri di deserto e il buio prolungato del bagagliaio di un’auto: uno dei tanti mezzi usati per completare l’infinito viaggio verso l’Italia in cui ha sofferto fame, torture ed è finito prigioniero delle bande armate. La forza del suo sogno, quello di un bambino che calciava a piedi nudi un pallone di fortuna davanti alla scuola, l’ha tenuto in vita. E oggi, mentre è in attesa di trovare una nuova squadra, continua a illuminare il suo cammino: “Voglio arrivare in Serie A”.

Sei riuscito a debuttare in B senza aver giocato una sola partita “vera” in Africa. Non avevi nemmeno un ruolo. Poi qui hai scoperto di essere una mezzala.

“Matteo Centurioni, il mio primo allenatore nella Primavera del Padova (poi anche in prima squadra, ndr), mi ha provato ovunque: difensore centrale, ala, terzino, mediano, seconda punta. Alla fine ha capito che come mezzala posso rendere di più”.

A chi ti ispiri?

“Kanté del Chelsea mi piace perché non si ferma mai, dà il cuore in campo. E vorrei incontrare Barella, è il mio calciatore preferito nel campionato italiano”.

Due giocatori che corrono tanto, come te.

“Nell’ultima partita che ho giocato prima dell’arrivo del Covid, in prestito all’Adriese in Serie D, l’allenatore mi ha fatto vedere i dati misurati col Gps: nel primo tempo avevo percorso gli stessi chilometri che in media si fanno in una partita intera”.

Hai colmato le tue lacune tattiche?

“Sì e sto ancora migliorando. In questo periodo, oltre a continuare ad allenarmi e a studiare informatica da autodidatta, seguo dei corsi di tattica su YouTube”.

Ma non è che è stato proprio il calcio giocato in Guinea ad averti dato qualcosa di speciale?

“Se sono arrivato in Serie B è merito di quelle partite: da noi il calcio non è tecnica o tattica, ma forza, grinta, corsa. Sono riuscito a impressionare nel mio provino col Padova proprio per queste mie caratteristiche. All’inizio ero fin troppo esuberante. Durante una partitella contro la prima squadra il capitano Trevor Trevisan mi ha dato una gomitata. Dopo però si è scusato e mi ha detto: «Sei un bravo ragazzo, mi piace la tua voglia, continua così»”.

I tuoi primi mesi in Italia non sono stati facili. All’inizio eri insieme a oltre duecento migranti a Villa San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria, ospite di un hotel senza riscaldamento dove vi davano da mangiare latte e zuppe allungate con l’acqua, con poche possibilità di inserimento sociale. Adesso, dopo quasi quattro anni, cosa pensi del nostro Paese?

“Posso solo ringraziare l’Italia. Senza la sua gente non sarei sopravvissuto. Qui mi sento al sicuro”.

In Italia sei diventato uomo quasi da un momento all’altro.

“È vero. Mio padre mi diceva sempre: «Sorridi, ama, nel tuo cuore non deve esserci spazio per la cattiveria. Avvicinati alla gente, non aspettare che loro si avvicinino a te». È quello che ho fatto: soffrivo, mangiavo male, poi mi sono rivolto alle persone giuste e la mia vita è cambiata. Nella Cooperativa Sociale Edeco Onlus di Battaglia Terme (Padova), dove sono stato trasferito, mi sento parte di una famiglia”.

Se ora sei lì è grazie alla tua decisione di recarti alla Prefettura di Reggio Calabria insieme a una decina di amici per rivendicare i diritti che vi erano negati. Pensi che l’Italia faccia abbastanza per i migranti?

“Quando nasci in Africa immagini l’Italia come il paradiso. All’inizio la delusione può mandarti fuori di testa e puoi pensare che gli italiani siano contro gli immigrati. Dopo tutte le sofferenze vissute ci aspettiamo di trovare persone che ci diano una mano, che ci ‘coccolino’. In Calabria non era così, ma solo perché la struttura non aveva la possibilità di accogliere nel modo giusto così tanta gente”.

In Africa hai vissuto esperienze terribili. C’è ancora qualcosa che ti fa paura?

“La notte. Non è facile dormire”.

Credi nel destino?

“Sì. In questi anni ho incontrato molti ragazzi che sono venuti in Italia per giocare a calcio, alcuni anche più forti di me. Ma oggi lavorano nei campi o in un’azienda. Io ho sempre creduto nel calcio e ho sempre trovato persone che mi hanno aiutato a proseguire su questa strada. In realtà anche persone che mi hanno detto di cercarmi un altro lavoro. Ma il calcio è il mio unico obiettivo. Secondo il Corano, il destino si può cambiare. Vuoi fare il calciatore ma non hai una squadra o un procuratore? Alzati presto la mattina, vai ad allenarti, gioca nei piccoli tornei. Vedrai che prima o poi arriverà qualcuno che si accorgerà di te. Per me è stato così. Io mi allenavo e mi alleno più di tutti. La mattina mi sveglio alle 6 e vado a correre per venti chilometri col pallone. Alcuni mi dicono che sono matto, io rispondo: no, sto seguendo il mio sogno”.

Nel libro si parla molto di soldi. Quelli guadagnati da tuo fratello sono stati indispensabili nel corso del vostro viaggio: per pagare i tanti autisti, le bande armate che presidiano le strade e il tuo riscatto quando sei stato rapito, in Libia. Adesso che rapporto hai con il denaro?

“Ancora non ne ho, eppure sono felice perché sto bene con le persone con cui vivo. Ma voglio guadagnarli. La mia famiglia in Guinea (la sorella Sitan è lì, ndr) ha bisogno d’aiuto. Voglio realizzare il mio sogno per aiutare i ragazzi orfani in Africa, che giocano a piedi nudi sulla strada come facevo io, farli andare a scuola, provare a portare la pace a Nzérékoré, dove sono cresciuto. Senza soldi non posso riuscirci”.

Secondo te cosa insegna la tua storia?

“Ad apprezzare quello che si ha. Se hai un padre, una madre, un fratello e un lavoro non è giusto lamentarsi, magari di non guadagnare tanti soldi. E insegna ai ragazzi che hanno un sogno che bisogna crederci sempre: nessuna sofferenza può essere grande abbastanza per rinunciarci. È il motivo per cui alla fine ho accettato di scrivere questo libro. È stata dura raccontare la mia storia, mi faceva piangere ogni volta. Ma questo è un momento di gioia, grazie a Dio sono qua oggi”.

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