D’Agostino: “Ora, alleno i giovani. Padel? Preferisco giocare coi piedi”

Un bivio sotto il sole di Sicilia, la strada giusta che lo ha portato fino a Roma, poi una panchina dove è stato tutto: ragazzo e calciatore, uomo e allenatore. Gaetano D’Agostino ha 40 anni, i sogni e l’entusiasmo di quando era bambino

Simone Lo Giudice

29 luglio

Palermo, quartiere Sperone, bandiere sui balconi bruciate dal sole. In questi scorci di Sicilia negli Anni ‘80 il calcio è ovunque: sui piedi, sulla bocca, nel cuore. Ragazzi in moto perpetuo dalle quattro alle otto di sera: c’è anche Gaetano D’Agostino tra di loro, il più piccolo con un talento grande, il primo a recuperare il pallone quando finisce fuori. Questi cortili sono come palestre a cielo aperto dove affinare i colpi, imparare a lottare, capire cosa significa il rispetto. Oggi Gaetano è un uomo scudettato con la Roma da una ventina d’anni che guarda a quei pomeriggi con amarezza per la strada intrapresa dal nostro calcio tutto tattica e con poca tecnica. Dopo il calcio giocato l’ex centrocampista dell’Udinese ha scelto di allenare, dopo la seconda mancata qualificazione della nostra Nazionale ai Mondiali ha deciso di tornare sui campi dove tutto è cominciato. Obiettivo: aiutare i talenti del futuro a crescere nel verso giusto.

Gaetano, che cosa l’ha spinta a fare l’allenatore?

Dopo i trent’anni ho cominciato a vivere l’allenamento in maniera diversa. La comunicazione coi compagni è cambiata. Cercavo di spiegargli tatticamente cosa potevano fare. Ho iniziato a guardare le partite con occhio diverso. Mi sono appassionato alla tattica e ai particolari. Più andava avanti la voglia di allenare, più si affievoliva quella di giocare. A 33 anni ho detto basta: ho anticipato la fine della carriera da calciatore per velocizzare quella da allenatore. Sono uno dei mister più giovani con Alberto Gilardino e Alessio Dionisi. Ho quasi 200 gare in Lega Pro. Allenare mi emoziona.

Più stressante giocare o allenare?

Allenare! Il calciatore può rifarsi, ha sempre uno sfogo psico-fisico. I mister hanno una stanchezza mentale forte. Dopo ogni allenamento i giocatori vanno a casa, noi invece dobbiamo metterci seduti, rivedere tutto e parlare con lo staff.

Al Lecco ha vissuto la sua esperienza più positiva in panchina?

Anche ad Anzio ho vissuto una bella parentesi, la prima in Serie D con pochissimi soldi e in un girone tra i più difficili del campionato con Monopoli, Nocerina e Bisceglie. Ci siamo salvati con la squadra più giovane del torneo. Quello mi ha spinto per andare al Francavilla, che con Antonio Calabro aveva vinto Eccellenza e D e giocato i playoff di Lega Pro. È stato il mio campionato più spettacolare sotto il profilo dei gol e dei record battuti. Abbiamo vinto i due derby contro il Como poi promosso in B. Però il calcio in Italia è crudele. Ero convinto che avrei fatto il salto di categoria o che avrei preso una squadra con l’ambizione di vincere il campionato. Non è andata così. Io seguo Carlo Ancelotti, il mio idolo è Fabio Capello però ammiro anche giovani come Roberto De Zerbi e Alessio Dionisi. Se uno è bravo l’età non conta.

Poi c’è stata l’esperienza con la Vibonese…

È stata la più negativa. Volevo dimostrare che andando in una società potessi fare grandi cose. Ho peccato di orgoglio. Ho molto rispetto per il presidente Pippo Caffo, ma credo che per fare professionismo serva qualcosa di diverso.

Che cosa ha scelto di fare dopo?

Sono andato in giro per scuole calcio. Ho visto tante partite di bambini. Mio figlio gioca nella Lazio sia nel campionato nazionale che in quello regionale. La situazione attuale mi ha messo un po’ di angoscia ripensando al mio passato. La colpa è di chi investe: prima bisogna scegliere gli uomini per far crescere i giovani, poi il resto. Si pensa troppo alla teoria e alla tattica. I bambini devono giocare, divertirsi e sbagliare. Invece sono costantemente sotto giudizio perché si pensa solo al risultato. Così mi è scattata la scintilla di creare un progetto: lo sto portando avanti con Carlo Cherubini e la sua scuola calcio CHC. Propongo lezioni private. Ho aperto un canale su TikTok e una pagina Instagram. Oltre ad allenare, il mio sogno è girare i campi. In Italia non manca il talento. Manca chi insegna a tirare fuori il talento.

Pochi suoi colleghi hanno intrapreso questa strada però…

Il piatto più facile è andare a Coverciano, fare il patentino e credere giusto di avere il nome per allenare. Chi ha giocato a calcio non deve dare per scontato di saper insegnare. Ogni tanto abbiamo il dovere di ritornare bambini e andare nei campi dove siamo cresciuti. Se in prima squadra si presentano giovani con lacune sulla postura e sui principi di gioco non è colpa loro. Abbiamo saltato due Mondiali, dopo la vittoria degli Europei ci siamo seduti, il movimento femminile sta facendo fatica. Le squadre Primavera non vincono mai la Youth League. La Serie A è il quinto campionato più bello.

Tornando alle sue origini: com’è nata la sua passione per il calcio?

Ce l’avevo nel Dna. Sono cresciuto in un quartiere complicato di Palermo. Avevo due strade davanti: una cattiva, una buona. Ho scelto la seconda. Sono nato con il pallone tra i piedi. Stavo per strada dalle quattro del pomeriggio alle otto di sera, giocavo alla tedesca e a porta romana. Ero il più piccolo e quando perdevamo il pallone andavo a prenderlo. C’era quel sano nonnismo che ho riportato nello spogliatoio. Mio padre faceva il portiere a livello dilettantistico. Non avevo sportivi in famiglia da cui prendere esempio. I miei parenti amavano il calcio, tifavano per Palermo e Juventus.

Lei ha indossato il numero 10 nella sua carriera: si è un po’ perso il valore di questa maglia?

Si è persa l’emozione. Pochi giocatori emozionano, il dieci non è più così importante. Quando Lionel Messi è passato al Psg,  Neymar glielo avrebbe dovuto dare, così non è stato. Paulo Dybala con intelligenza ha scelto di non indossare quello di Francesco Totti, ha detto che se lo deve meritare, ha avuto rispetto per quel numero. Ora il dieci è marketing. L’ultimo è stato Totti, prima Antonio Di Natale, Alessandro Del Piero e Gianfranco Zola. Anche Dybala alla Juve.

Come si vince lo scudetto a Roma? In che posizione vede la squadra di José Mourinho oggi?

Sono due domande che si collegano alla stessa risposta: a Roma serve l’uomo giusto al posto giusto. La squadra si sta migliorando anno dopo anno. Vincere la Conference League nella Capitale non è semplice. Hanno preso Dybala, sto sentendo che potrebbe arrivare anche Georginio Wijnaldum. Sono cresciuti con la comunicazione di José Mourinho e dei Friedkin.

Che cosa aveva di speciale la Roma di Capello?

Disciplina dentro e fuori dallo spogliatoio. Prima del suo arrivo regnava l’anarchia. Con Capello sono state introdotte regole nel parcheggiare la macchina in un certo numero, nello stare attenti al peso, nel vestirsi tutti uguali. Con lui la Roma sembrava una piccola caserma, ma era l’unico modo per vincere unito alla presenza di giocatori top. Lo dimostra il fatto che poi non c’è stato un seguito e non si è vinto più. Siamo sulla buona strada per rivedere una Roma vincente.

Lei ha giocato con Francesco Totti e Antonio Cassano: che cosa ricorda di quella coppia?

Erano giocatori stellari. Si ricorda di più Francesco, ma Antonio al di là della sua pazzia tecnicamente non aveva niente da invidiargli. Anzi su certi colpi Cassano era più forte di Totti. Si completavano. Era bello verticalizzare per loro, però quando hai una coppia così devi vincere qualcosa. L’ambiente romanista ha sempre vissuto la sua grande passione in maniera molto umorale per questo bisogna tenersi stretto Mou. Lui sa cosa vuol dire vincere e ripartire da una vittoria.

L’estate 2004 è stata una delle più belle della sua vita?

Ho vinto gli Europei Under-21 con un gruppo di giocatori molto forti, alcuni di loro poi sono andati al Mondiale. Noi siamo partiti per il torneo consapevoli di poter fare bene. Abbiamo perso la prima gara nel girone da quattro. Ci siamo uniti attorno a Claudio Gentile e abbiamo vinto tutte le partite. Quell’Europeo è stato la ciliegina sulla torta per me.

Che bilancio fa della sua esperienza con la maglia azzurra?

Molto positivo! Potevo andare al Mondiale 2010, ma mi sono fatto male al menisco esterno del ginocchio ad aprile e non ce l’ho fatta per recuperare. Ero uno dei centrocampisti più forti della Nazionale. C’era tantissima concorrenza. Mi sono guadagnato la prima convocazione dopo 140 partite in Serie A. Servivano almeno tre-quattro campionati nella massima serie per indossare la maglia azzurra, oggi appena fai cinque partite buone vieni convocato.

Sono passati tanti anni dal suo addio all’Udinese: è rimasto legato alla piazza bianconera?

Tantissimo! Credo di aver lasciato anche io qualcosa di grande. Ho trovato la società giusta, gli allenatori che mi hanno valorizzato. Un giorno Alberto Malesani mi chiamò insieme al suo secondo Ezio Sella. Giocavo poco e volevo andare via. Il mister mi disse di stare tranquillo e di aspettare la scadenza del contratto di Sulley Muntari, poi ci sarebbe stato più spazio. Mi disse che mi vedeva come regista. Mi provò, dopo una settimana mi diede una maglia da titolare. Da quel momento in poi non sono più uscito dal campo. Ho giocato quattro anni bellissimi. Il friulano è schivo all’inizio, ma quando si affeziona non ti molla più. Oggi vivo a Roma, ma ho ancora un grandissimo rapporto con tanti friulani.

Che peso ha il regista nelle sue squadre? È più sensibile nei confronti di questo ruolo?

Sì e no perché è cambiato il modo di fare calcio, oggi si gioca molto sul corto. In Serie A e negli altri top-5 campionati europei si è persa l’importanza del regista vero. Si fa un gioco più veloce meno qualitativo. I centrocampisti di oggi sono dotati di grande forza fisica e buona qualità. Gli unici registi sono Luka Modric e Kevin De Bruyne. Jorginho e Marco Verratti giocano in quel ruolo, ma sono diversi da modelli come Andrés Iniesta, Andrea Pirlo e Steven Gerrard.

Com’è cambiato il suo rapporto con l’estate dopo il mancato passaggio nel 2009 prima alla Juventus e poi al Real Madrid?

In questo momento in cui sono senza squadra, l’estate mi trasmette molta tranquillità. Fino al 2012 ho raccontato quel 2009 con rabbia, mi lasciavo prendere dai sentimenti ricordando quel doppio mancato passaggio. Oggi lo racconto con un sorriso e con un pizzico di ironia perché mi è servito tanto come esperienza anche nel mio percorso da allenatore. Ai miei giocatori dico sempre che il calcio è talmente bello e crudele che può portarti dalle stelle alle stalle in un attimo.

I suoi parenti spingevano per il suo passaggio a Torino?

Sì, al sud tra ‘70 e ‘90 si tifava per le tre grandi. La mia famiglia era più propensa per la Juve: quando è uscita la notizia che mi voleva, mi sono arrivati messaggi e chiamate. Era tutto fatto, mancava solo l’ok dell’Udinese mai arrivato. La botta finale me l’ha data il Real Madrid di CR7 e Kakà, al posto mio prese Xabi Alonso che si svincolò dal Liverpool.

Il Real si è fatto sentire e poi è sparito?

Avevo trovato un accordo economico col Real grazie alla mediazione del compianto Ernesto Bronzetti. Avevo già il volo privato per andare a Madrid insieme al mio procuratore e alla mia famiglia. Prima la partenza è stata posticipata di un giorno, poi la trattativa tra i club si è arenata ed è finita così.

Il 2010 per lei è stato un anno duro: ai suoi giocatori insegna come ripartire dopo situazioni simili?

Ho discusso con la società. Mi sono rifiutato di andare alla Lazio. Mi feci convocare dal mister Pasquale Marino per giocare contro il Milan in Coppa Italia, feci una grande partita a San Siro così il presidente Gianpaolo Pozzo decise di tenermi. Nel 2010 mi sono fatto male contro il Napoli: stavo lottando con Michele Pazienza, quando ho agganciato il pallone ho sentito un colpo al menisco. Non avevo mai fatto una scivolata così in carriera e mi sono rotto il ginocchio. L’anno dopo sono passato alla Fiorentina dove ho costruito un legame speciale con la città e con i tifosi viola.

Quali sono i suoi propositi per il futuro?

Voglio fare l’allenatore a grandi livelli e voglio fare crescere i giovani. Mi piacerebbe creare un’Accademia tutta mia. Da maggio ad oggi ho raccolto più di 30 iscrizioni. Ho visto almeno 7-8 bambini con un potenziale importante a Roma. Pensa quanti se ne possono trovare in tutta l’Italia! Gli voglio insegnare che c’è sempre un modo per rialzarsi dopo ogni caduta. Io arrivo dalla strada, non provengo da una famiglia aristocratica. La delusione per il mancato passaggio alla Juve e al Real è stata dura da accettare, l’ho pagata mentalmente, ma mi sono rimboccato le maniche. I giovani di oggi hanno poco equilibrio: se vengono sollecitati con emozioni negative mollano, se provano troppe emozioni positive si esaltano. Non dimentico ciò che mi disse Italo Galbiati alla Roma dopo l’esordio con Capello: “D’Ago sei arrivato in cima, adesso restaci però”. Me lo disse quasi incattivito. È la frase che mi sono portato dentro per tutta la vita.

A parte il calcio ha qualche hobby? Le piace il padel?

Mi piace perché c’è tanta competizione, però sono più propenso a usare i piedi e preferisco una partita a calciotto. Purtroppo non ho mai giocato con la squadra di Totti a Roma per i tanti impegni da allenatore, però mi piacerebbe.

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