Da Maradona a Messi, se vincere è rinascere

Tutto ciò che l’Argentina ama, tutto ciò che l’Argentina sente, tutto ciò che l’Argentina chiede al Dio sconosciuto e al mondo distratto si è riversato ieri nelle piazze sterminate di Buenos Aires, nelle strade senza sole di Rosario. Per le città e per i villaggi che spesso sono più piccoli delle piazze delle città. Alla maggior gloria di Messi, punto cardinale che oggi è complicato liquidare come pleonastico o popolaresco. Leo in questo momento, un momento tutto sommato lungo quindici anni, è il capofila di un movimento calcistico che a ogni stagione mette in moto intorno a 2.500 giocatori professionisti nelle prime e seconde divisioni di tutto il mondo. Ed è il centro di gravità di una squadra che con la vittoria del Mondiale, stando ai calcoli condotti dall’istituto di credito olandese Abn Amro sulle ultime edizioni, potrebbe rialzare il Pil argentino di uno 0,77%. Non sono briciole per un Paese che in condizioni normali cresce sì del 5%, ma sempre agitandosi nella stretta di una crisi ventennale. Non si tratta di mescolare l’effimero dello sport con la cappa pesante della realtà sociale. Si mescolano per natura, non solo in Argentina. Noi ci siamo tutti guardati intorno le notti di luglio dello scorso anno e abbiamo visto analoghi fiumi di gente per le vie italiane. Avessero vinto i francesi, non avrebbero mostrato meno entusiasmo e gli olandesi nemmeno. Non parliamo degli inglesi, che aspettano buone notizie dal 1966. Ma nell’autocelebrazione argentina c’è qualcosa di più intenso, un’interiorità che si esprime sgorgando e ardendo come magma. Una potenza simbolica che s’incarna, una volta ancora, in Leo Messi, ambasciatore del puro istinto calcistico sudamericano, rivincita vivente del talento costretto in un corpo di taglia media che si ricopre d’argento all’occorrenza, come quello di un supereroe cosmico. E rappresentante ideale di un popolo che si è costruito da solo attraverso decenni di accoglienza, mescolanza, accettazione, unificazione. Un po’ spagnolo, un po’ italiano, un po’ serbo, da questo punto di vista Messi è ancora meglio di ciò che Maradona fu nel 1986. Anche se a ben guardare la sostanza resta la stessa: una spirale emblematica che parte da un leader, si allarga a formare una squadra, si espande a coinvolgere una nazione apparentemente condannata a patire lo iato tra la sua straripante voglia di felicità e la resistenza ostile dell’ambiente. Nel 1986 il Mondiale vinto marchiò l’uscita da sette anni di terrificante dittatura e, sangue su sangue, dal ricordo della guerra delle Falkland. Questo successo in Qatar scende su un’inflazione che lambisce il 100% e su un annuncio di recessione per il 2023. È come se restasse giusto il calcio a ricordare agli argentini che loro sono altro, sono una sola moltitudine, in possesso di eccellenti diversità. Che tutto cambia velocemente e nel frattempo il calcio può bastare a sé stesso. Per un giorno, per un po’, per un Natale.

Fiesta en Argentina, la gente continua a cantare: il video di Lady Lautaro

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