Cori antisemiti, Di Segni: “Ogni volta è una pugnalata. Serve cultura”

La presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche: “Situazioni del genere non si verificano solo nella curva della Lazio. Serve l’intervento tempestivo di politica, magistratura e scuola”

Valerio Piccioni

9 novembre – ROMA

Non è la prima volta che Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche, è costretta a intervenire su parole ascoltate negli stadi. “Ogni tipo di coro, antisemita, o che inneggia ad altre forme di razzismo, lo vivo come una pugnalata”.

C’è una frase del comunicato con cui la Lazio ha condannato con fermezza i cori di domenica sera all’Olimpico che impressiona. Si parla di “espressioni e antisemitismo che si manifestano ormai nella quasi totalità delle partite e degli stadi d’Italia”. Questa considerazione mette decisamente i brividi.

“Purtroppo è vero, situazioni del genere non si verificano solo nella curva della Lazio. Magari lì si ripetono più spesso, ma siamo stati costretti a intervenire e denunciare striscioni e cori anche altrove. E confesso un senso non di rassegnazione, ma proprio di disperazione per tutto questo”.

Come reagire?

“Intanto è un lavoro che non può venire soltanto dagli ebrei. La reazione al disagio, al male, al dolore provocato da cori o striscioni chiama in causa tanti soggetti: la filiera calcistica, la politica, la magistratura, ma anche la scuola”.

La scuola?

“I momenti in cui si comincia a vivere il calcio, a giocarlo, a tifarlo, sono decisivi. Bisogna contrastare questa banalizzazione offensiva secondo la quale dire ebreo è un insulto nei confronti dell’avversario. È una questione di cultura che riguarda tutte le famiglie”.

Insomma, un lavoro dal basso per fare terra bruciata intorno a quel linguaggio terribile.

“Il calcio è un posto eterogeneo, che contiene una grande varietà di colori e di storie, la sua bellezza sta anche in tutto questo. Si gioca in qualsiasi posto del mondo come la stessa serie A dimostra. Tutto questo è il contrario del razzismo”.

Dunque, non solo repressione.

“È chiaro che c’è una responsabilità della politica e della magistratura. Soprattutto ci colpisce in qualche circostanza l’assenza di tempestività. E poi sappiamo che molto spesso le stesse persone soggette a Daspo le ritroviamo da uno stadio all’altro e la legge non viene applicata. Ricordate gli adesivi razzisti di Anna Frank?”.

Sì, era il 2017.

“Ci siamo mossi, le cause sono partite, i responsabili sono stati individuati, poi per una serie di tecnicismi procedurali siamo ancora lontani dalla fine delle indagini. Bisogna definire meglio il reato di odio e questo compito è del legislatore. Ma non è un problema solo di norme, anche di cultura”.

E quali sono i rapporti invece con il calcio e le sue istituzioni?

“Ci si sta lavorando, anche sotto il profilo di norme che possono essere inserite nei regolamenti e negli statuti. Quando noi parliamo uno a uno con i club c’è una grande disponibilità, ma poi molto spesso si rimanda tutto alla Federazione. Con cui noi ovviamente siamo in contatto. Quello che voglio dire però è che l’iniziativa nel Giorno della memoria non basta, non può bastare”.

Avvertite una fatica in questi rapporti.

“A volte non si riesce a rispondere con una reazione immediata. Fatica è la parola giusta: sì, bene, interessa, vediamo, però non sempre tutto questo genera una reazione e un intervento”.

Quale può essere il simbolo di una risposta a questo genere di episodi che non riescono a finire nel mondo del calcio?

“C’è uno slogan di una campagna alla quale abbiamo aderito che rende l’idea di quello che è necessario fare. L’hashtag è “Not in my game”, che prende spunto da “Not in my name”. “Not in my game” significa con me no, questo genere di parole, di striscioni, di cori non sono i miei”.

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