Lo troviamo.
«Sono a Lhasa, viaggio di piacere, mi dicono che a pochi chilometri da noi sta per essere celebrata una funzione religiosa, la mistica, le trombe Dung-Chen, ci siamo capiti. Mi piazzo sotto il tempio, sulla scalinata, all’ultimo gradino, tantissimi turisti, siamo fitti fitti. Arrivano i giovani monaci, a una quindicina di metri riconosco il loro sacerdote, un tipo minuto, capelli e barba bianchi. D’un tratto incrocia il mio sguardo, strano e casuale, penso. Altrettanto stranamente si apre un varco tra la folla e lui si avvicina. Me lo ritrovo di fronte, io alto un metro e 90, lui uno e sessanta, ma di una potenza infinita. Mi guarda, rimango stecchito, e mi mette una mano sul cuore. Non puoi capire la sensazione… Rientrato in hotel, resto per ore come stordito, poi vengo a sapere che si è trattato di un episodio insolito, lui va dove vuole e quando vuole, mi viene spiegato. Due anni dopo ho avuto l’infarto, è stato come se mi avesse voluto avvisare. Da qualche parte ho letto una frase che mi è molto piaciuta: “l’anima, che per l’uomo comune è il vertice della spiritualità, per l’uomo spirituale è quasi carne”… Prima di morire spero di poter tornare in quei posti».
Passiamo dalla carne al sangue – metaforico – delle polemiche arbitrali.
«Mi devi consentire una premessa. Ho 200 partite in A e 150 in B, ai miei tempi l’alternanza, l’avanti e indietro, su e giù, rientrava nel percorso di crescita. Oggi i cosiddetti esperti dirigono solo in serie A. Dico: vai indietro a rifarti. L’arbitro è presuntuoso, dopo qualche gara di campionato pensa di essere il più bravo del mondo e allora va punito e riportato a terra. Io certe cose le ho vissute, provate, pagate anche. Mi sono formato sotto Campanati, affiancato da D’Agostini, e in seguito con Ferrari Aggradi, alta scuola, capace – lui, sì – di fare crescere gli arbitri».
Perché ti sei fatto arbitro?
«Mica prete… Per colpa di un caro amico che ha fatto il calciatore, Dino Panzanato, quasi 200 presenze nel Napoli. Più vecchio di due anni. Io, mestrino, ero quello che studiava, mentre lui, nato a Venezia, lavorava come tornitore. Abitavamo vicini e mi portava spesso il pranzo di mezzogiorno. Non ero in grado di fare qualcosa di buono con i piedi, perciò mi sono iscritto alla sezione di Mestre, dove c’erano Rigato, Angonese».
Com’è la storia dell’argentino mancato?
«Nel dopoguerra molti veneti emigrarono in Argentina, amici dei miei genitori ci invitarono a seguirli. Nel ’46 avevo sei anni, mio padre trovò lavoro a Marghera, in un cantiere della Breda. Restammo. Tutte le volte che sono stato in Argentina ho provato uno strano senso di familiarità. Sono diventato molto amico di Maradona, conosceva la mia storia, e di tanti suoi connazionali… Fin dal primo momento ho capito che i veri interpreti di questa arte sono i calciatori e poi gli allenatori. L’arbitro non è né il primo, né il secondo».
Il tuo amore per il calcio è quasi commovente.
«A questo sport ho dedicato la vita, l’ho studiato in modo approfondito, ma sono il tipo che non avrebbe mai lasciato il lavoro per il calcio, per fortuna non sono stato messo nella condizione di dover scegliere. Del calcio apprezzo in particolare il valore sociale. Nel 1870, 1872 in Inghilterra c’erano 100mila persone alla partita, in massima parte indiani che in quel modo venivano controllati. Quando sono stato in Burkina Faso ho trovato 80mila persone allo stadio a veder giocare. È un fenomeno sociale universale».
Toglimi una curiosità, hai mai patito il confronto con Agnolin?
«Mai, eravamo totalmente diversi. L’ho apprezzato, anche se qualche volta gli avrei dato un calcio nel culo».
Prego?
«Nel Duemila scrivevo per un settimanale che si chiamava Rigore, pur conservando un ruolo a Coverciano. Firmai qualcosa di sgradito sul fuorigioco e mi deferirono. Un quotidiano promosse un referendum per capire se fosse il caso di sbattermi fuori e l’unico arbitro a firmare contro di me fu Agnolin. Seppi che stava male, ma male molto, quando lo incrociai a Coverciano, l’accompagnava la figlia, parlammo a lungo. Sapevo che per curarsi andava da Bassano a Verona e gli dissi: Luigino, io farò da Milano a Verona. “Guarda che vado in ospedale, mica a Vinitaly”, rispose. Anche a pochi mesi dalla morte prevalevano ironia e verità».
Ho letto il tuo intervento sul mancato rigore all’Ucraina e la spiegazione del metro di giudizio di Gil Manzano non mi ha convinto: mi è sembrata l’affermazione della soggettività. Per la serie: ognuno arbitra secondo il proprio stile.
«In Spagna sono portati a non concedere i rigorini. Manzano, che a pelle mi sta anche sui coglioni, di rigori ne dà pochissimi».
Rigorino quello?
«Anch’io l’ho visto alla tv. Sulle prime ho pensato fosse netto, poi ho notato che Mudryk accentua la caduta, quel volo non può essere frutto del tocco di Cristante. Gil Manzano, dal campo, ha avuto una percezione più precisa dell’intensità. Per me il rigore dev’essere risarcimento, non regalo. L’arbitro non deve regalare, è una cosa che ho cercato di trasferire ai miei colleghi quando facevo il designatore. Il difensore con un fallo ha impedito all’avversario di segnare? Rigore. Il fatto è che non siamo ancora usciti dalla pandemia dei rigorini, ci vorrà molto tempo per aggiustare le cose. Concetto Lo Bello aveva una media di 0,25 rigori a partita. Bisogna tornare a un calcio forte nel quale l’accentuazione di certe cadute, per non dire la simulazione, va bandita. Dal campo l’arbitro capace sa valutare l’intera dinamica di un intervento falloso. Le regole restano due: integrità e fuorigioco. Oggi in una partita la media dei fuorigioco è di 4, ai tempi di Sacchi e Zeman si arrivava a venti».
Cosa intendi dire?
«Il calcio è uno sport da punteggio basso. Nel 2017, secondo uno studio elaborato dall’Uefa, la media dei gol di un campionato top era di 2,6 a partita. Questa tendenza a voler aumentare il numero delle reti nel nome dello spettacolo produce effetti fallimentari. Assolutamente peggiorativi sono i continui cambiamenti regolamentari e protocollari. Ma vogliamo parlare del benedetto fallo di mano in area?».
Parliamone.
«Da quando hanno abolito la volontarietà si moltiplicano le decisioni assurde. Porto un esempio elementare: il braccio colpito involontariamente dal pallone fa un movimento a rientrare. Se invece l’intenzione è quella di intervenire, la traiettoria del pallone è in avanti. Oggi il difensore è costretto ad assumere posture innaturali».
Tutta colpa della tecnologia.
«Una persona importantissima mi ha spiegato che tra qualche anno prenderà il posto dell’arbitro, una figura destinata a sparire. Io quel giorno non voglio esserci».
Infantino vuole allungare i tempi di gioco.
«Fino a qualche anno fa si giocava 59, 60 minuti. Se si aumentano i minuti effettivi, si gioca con due marce in meno e non ti dico le pause, le interruzioni».
Che designatore sei stato?
«Ho salvato molte famiglie. Per arbitrare devi stare benissimo con la testa. Non puoi portare in campo le tensioni di casa».
Hai sempre arbitrato al massimo della condizione psico-fisica?
«Ho fatto ricorso a riserve d’energia straordinarie. Un anno mi addormentai in treno e se non mi svegliano a Porta Susa salto Juve-Toro. Ricordo anche un ritorno da Nuova Delhi previsto il sabato sera ma in realtà spostato alla domenica mattina a poche ore da Roma-Fiorentina. Anche quella volta diedi tutto».
Con gli allenatori eri tollerante?
«Trapattoni e Liedholm facevano parte della stessa famiglia. Gasperini, un duro, ma tecnico strepitoso, rompeva i coglioni anche 40 anni fa a Pescara, da giocatore. Per un fuorigioco o un fallo».
Mourinho come lo affronteresti?
«Quando lui ricorda quello che ha vinto vuol farti sapere che ha lavorato, bene e tanto. Non fa il buffone e non ha voglia di perder tempo. Non gli puoi dire “stai zitto”, lui ti sovrasta. È un uomo intelligentissimo. Bisogna parlargli con rispetto. E poi ha una dozzina di persone dietro di lui che lo pressano… Garcia, col gesto del violino, mi piacque tanto, pura creatività».
Rocchi sta lavorando bene?
«Sta formando giovani in gamba». Che saranno presto sostituiti dall’intelligenza arbitrale.