Calabresi esclusivo: "Grazie al Lecce torno in serie A con le mie forze"

Alla fine ti guardi dietro le spalle e dopo sette anni di calcio professionistico, che hai vissuto con la sensazione di dover sempre sgomitare, conti 151 presenze tra Serie A e B. E mettici pure la Ligue 1, che non è proprio da tutti. Arturo Calabresi sorride e il sorriso si allarga ancor di più, ora che si è guadagnato la promozione nella massima serie con il Lecce. Una sorta di promessa a se stesso, dopo aver sgomitato tanto. Un termine che ricorre durante l’ora di chiacchierata con il difensore centrale: sgomitare. Dalla Roma al Bologna, al Cagliari, Arturo se l’è dovuta sudare sempre e siccome è uno che le regole del gioco ha imparato a conoscerle, non si lamenta di questo. Ma a 26 anni si prende quel che è suo. Tutto era cominciato tra Livorno, Brescia, Spezia, Foggia. Poi Amiens, nel nord della Francia. E ora il mare del Salento e il grande cuore di una piazza nobile, che racconta pagine di calcio d’elite con Vucinic, Giacomazzi, Chevanton, Di Michele, Lucarelli, Miccoli, Cuadrado: gente vera passata di là. Lecce è il posto che Arturo Calabresi (lo dice e quasi non se ne accorge) associa alla sua prima, vera scelta consapevole. Spesso era partito per necessità: dopo Cagliari – e di rientro a Bologna per la terza volta – ha deciso che dovevo tagliare quel cordone.

Perché Lecce?

«Mi ci ha portato l’istinto, sapevo che, di rientro da Cagliari, con il Bologna – dove ero chiuso – doveva finire. E così è stato».

Un’altra cosa aveva detto a se stesso, arrivando a Lecce.

«In assoluto mi ero ripromesso che sarei tornato in A con le mie gambe, conquistandomelo. Ci sono riuscito. E dico che qui ci sono le potenzialità e c’è la piazza per ricostruire l’idea di una squadra virtuosa al Sud».

Cosa ha Lecce?

«Per il rapporto della gente con il calcio ricorda Roma: dal caffè della mattina senti di essere dentro qualcosa che vive di pallone».

Perché anche lei vive di pallone…

«Da quando sono piccolo. Crescendo non nego che avrei messo in cantiere tanti progetti extra calcio: finora non ne ho avuto il tempo, sono stato assorbito dalla mia corsa a gomitate per arrivare. Ho sudato, ma eccomi. E aggiungo che siccome sono sempre abituato a leggere prima nei miei limiti e nei miei errori per capire dove poi possono aver sbagliato gli altri, le porte in faccia le ho tutte analizzate a fondo».

Colpa di…?

«Conta poco, le porte in faccia fanno parte del gioco. Conta quello che riesci a ottenere. E io mica sono arrivato eh… Ora viene il bello».

Dove comincia l’amore per il calcio?

«Da bambino, al Centro calcio federale dell’Acqua Acetosa, a Roma: mi forma Alfonso Giovannini, un tecnico che ritroverò nella fusione tra Futbol Club, la mia seconda società, e la Cisco Roma. Al Futbol Club mi aveva mandato la Roma che mi aveva visionato, per fare un anno di transizione e poi andare da loro. Invece ho avuto una serie di problemini fisici legati alla crescita. E alla Roma sono arrivato con qualche anno di ritardo».

Sensazioni?

«Per me che sono romanista favolose. Ma da centrocampista centrale e trequartista ero troppo inferiore agli altri. Roberto Mattioli, il tecnico degli Allievi regionali, mi spostò difensore centraleo».

Bell’intuito, le ha cambiato la carriera…

«Sì. E mi sono accorto che lo facevo con grande natutalezza, in un anno e mezzo ho bruciato le tappe salendo quasi subito negli Allievi nazionali di Tovalieri e poi nella Primavera di De Rossi».

Poi?

«Poi faccio un quindicina di panchine con Rudi Garcia, sogno e comincio a girare in prestito. Prendendo qualcosa da ogni posto in cui andavo».

Livorno, Brescia, Foggia…

«A Livorno c’era Christian Panucci che vide in me la sua evoluzione, mi impostò da terzino destro: mica mi paceva troppo, ma ho imparato tanto. A Brescia tornai centrale, a Foggia con Stroppa braccetto destro della difesa a tre. Poi Bologna con Pippo Inzaghi, resto a tre e faccio bene. Poi arriva Mihajlovic».

E?

«Non gioco più. Ci sta che tu non piaccia a un allenatore, non me ne faccio una ragione ma voglio giocare. Vado ad Amiens per dimostrargli che incassavo la bocciatura, ma che avevo la personalità di andarmela a giocare in Francia: scelta che rifarei. Prendo il Covid a dieci partite dalla fine, torno, parlo con il mister, ma evidentemente non lo convinco. Vado a Cagliari dove non mi sono mai sentito parte di un progetto, il posto che mi ha segnato meno, mi spiace. Bologna invece è una ferita aperta. Ma va bene, fa parte del mio mestiere».

Una vita a sgomitare?

«Se ci pensi sì. La Roma mi dà al Bologna per 200 mila euro, e io alla Roma sarò e comunque sempre grato. Al Bologna parto bene e poi finisco quasi fuori rosa. Amiens con il Covid, ignorato a Cagliari. Mettici anche l’Europeo Under 21 che per quell’Italia, giocando in casa, è stata una grande chamce persa. E a Lecce mica è stato facile: da più di un anno non giocavo una gara da 90’, ma mi sono fidato di un uomo schietto come il direttore Corvino. E il tempo mi ha dato ragione. Ho anche preso la fascia di capitano quando mancava Lucioni qualche volta, qualcosa che non potrò scordare mai, che ti identifica».

Dicevamo di Roma… Qualcosa il destino le ha ridato: la batte all’esordio in A con il Bologna, le fa gol in Coppa Italia a gennaio con il Lecce pur perdendo…

«Piccoli risarcimenti che fanno sempre parte di questo lavoro. Con il papà romanista che ho (sorride) non avrei potuto scegliere altra squadra del cuore. E sono contento così».

È stato compagno di Lorenzo Pellegrini nel vivaio della Roma. Se lo immaginava capitano?

«All’epoca ovviamente no, ma potevo augurarglielo e sapevo che lo avrebbe fatto alla grande. Io sono amico di Lorenzo, abbiamo diviso la stanza. Diverso da De Rossi come Daniele lo era da Totti. Ma di Lorenzo dico a chi non lo conosce bene dico che è forte, sfacciato, consapevole e leader equilibrato. Un capitano vero».

Oltre al calcio abbiamo detto che finora c’è stato spazio per poco.

«Sì, ora però ho una maturità diversa e voglio pensarci sul serio. C’è pure un’idea, ma non vale la pena parlarne se ancora è in embrione».

Per noi varrebbe la pena. Facciamo un’eccezione?

«Uno spazio a Roma, un qualcosa che aiuti bambini e bambine con problematiche importanti: attraverso lo sport e non solo. La mia fidanzata a Bologna è una psicologa che lavora con piccoli pazienti oncologici. Io penso a un lavoro di squadra, con professionalità qualificate. Vorrei prima realizzarla».

La spaventa il mondo delle pandemie e delle guerre?

«Vorrò essere padre, non mi spaventa questo, ma molto di più il contesto sociale in cui ci stiamo abituando a vivere dividendo, anziché unire». Questo è Arturo Calabresi: un ragazzo non comune che torna in A con le sue gambe. 

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