Boniek ‘gioca’ Roma-Juve: “Mourinho o Allegri? È una scelta al fotofinish”

Cominciamo dalla domanda più ovvia. Chi vince?
«Chissà, magari nessuno. È una partita equilibrata di un campionato strano: guarda la Lazio che vince a Napoli con un episodio. Se devo indicare un risultato, può finire 1-1».

La chiave per provare a vincerla?
«Le palle inattive. Sono la specialità di entrambe le squadre».

Boniek ha giocato tre anni nella Juventus e tre nella Roma. Eppure il suo cuore ormai batte per la Roma. Perché?
«Perché è stata la mia ultima squadra. E quando mi sono ritirato, invece di tornare in Polonia, ho preferito rimanere in città a vivere. È normale legarsi a un posto più che a un altro. Ma ho tanti amici anche dall’altra parte. Chi mi cataloga come antijuventino non mi conosce».

La Juventus però le ha assegnato e poi revocato la “stella” dentro lo Stadium che ricorda le leggende del club. Può chiarire cosa sia successo?
«Bisognerebbe chiedere ad Andrea Agnelli».

Visto che ci siamo, lo chiederei a lei.
«Siccome alcuni gruppi della curva si lamentavano di alcune interviste, Agnelli ha preferito accontentarli e assegnare la stella a Edgar Davids che alla Juventus aveva preso una squalifica per doping… Non serbo rancore ma quando l’ho incontrato nelle riunioni Uefa, prima del casino della Superlega, gli ho detto ciò che penso: “Andrea, ti sei venduto agli ultras”».

Cosa aveva detto, Zibì, di così grave?
«Avevo criticato la gestione Moggi. Ma insomma, mi pare che la storia abbia dimostrato che io avessi ragione. Non ho mai sputato nel piatto in cui avevo mangiato, ma il diritto di critica esiste. O no? Per me non è un problema. Resta il fatto che nessuno nella Juventus ha segnato come me nelle finali. Sai quanti ne ho fatti?».

Ne conto tre decisivi: uno per la Coppa delle Coppe contro il Porto, due per la Supercoppa Europea contro il Liverpool. Del resto l’Avvocato la chiamava “Bello di Notte”.
«Beh, sarebbero stati quattro se Whelan non mi avesse steso all’Heysel. Ci diedero un rigore inesistente, perché il fallo era fuori area, ma senza quell’intervento avrei fatto gol».

Quella finale viene ricordata per una tragedia enorme, non per una vittoria. E per un festeggiamento inopportuno con la coppa in mano.
«Chiariamo. Nessuno di noi voleva giocare, ci obbligarono a farlo. Ma una volta cominciata la partita, un calciatore pensa a svolgere il suo lavoro. E quindi prova a vincere. Purtroppo è una situazione in cui sbagli comunque: se vinci perché la partita è stata funestata dalla tragedia, se perdi perché non hai onorato al massimo i morti».

Lei pensa di essersi comportato nell’unico modo possibile?
«Sono stato l’unico giocatore a devolvere l’intero premio-partita, che valeva il prezzo di un paio di appartamenti, all’associazione delle vittime dell’Heysel. Un gesto sentito».

Poi cosa accadde?
«Alle 4 prendo un volo privato per Tirana. L’indomani, sì l’indomani, la Polonia giocava in Albania una partita decisiva per la qualificazione al Mondiale del 1986. Vinciamo con un mio gol. Poi torno e vado alla Roma».

Perché?
«Perché avevo la sensazione che si fosse esaurito un ciclo. Gentile e Tardelli andavano via e anche Michel (Platini, nda) mi disse che avrebbe smesso presto. Viola mi aveva cercato anche qualche anno prima, fui attratto dalla nuova esperienza. La Juventus era una squadra stellare , ma anche la Roma era fortissima: a centrocampo con me c’erano Ancelotti, Cerezo, Bruno Conti, più giovani di qualità come Giannini, Desideri e Di Carlo. Davanti c’era bomber Pruzzo che era un centravanti pazzesco. Infatti fu una grande avventura».

La prima stagione però si concluse con un’incredibile beffa: Roma 2, Lecce 3 e addio scudetto.
«Se ne sono dette tante. Partita venduta, scommesse. Grandi fesserie. Perdemmo perché dopo una grande rincorsa arrivammo cotti al momento decisivo. Peraltro, per ciò che si vide in campo, avremmo anche potuto vincere 5-2. Invece andò diversamente. Peccato, perché quella è stata la squadra più spettacolare in cui abbia mai giocato. Pagammo più l’inizio stentato, con Eriksson che cercava la quadratura, che il finale. In fondo, anche se avessimo battuto il Lecce, poi avremmo dovuto vincere a Como e probabilmente giocare lo spareggio contro la Juventus. Non era già nostro lo scudetto, contrariamente a ciò che si possa credere. Certo, quella sconfitta, e quel duello perso con la Juve, cambiò molto».

In che senso?
«La società fu spinta verso un ridimensionamento. Perdemmo Cerezo, l’anno dopo Ancelotti. Sono convinto che se avessimo vinto quello scudetto la storia della Roma sarebbe stata diversa. Comunque, anche se vincemmo solo una Coppa Italia, è un triennio che resta nel mio cuore».

Roma-Lecce è la sconfitta peggiore della sua carriera?
«No. La finale di Coppa dei Campioni persa con la Juve contro l’Amburgo è stata più dolorosa. Non so spiegare quella partita. Se la rigiochiamo, nove volte su dieci vinciamo noi».

Tornando ai giorni nostri: Roma-Juve è sentita come la classica degli Anni 80?
«No, è tutto cambiato perché sono diversi i personaggi, l’ambiente, le regole: pensate se ai miei tempi fosse esistito il Var… Devo dire però, avendo giocato con entrambe le maglie, che questa partita era percepita come vitale soprattutto dalla parte romanista».

Anche Dybala gioca con la Roma dopo aver vinto con la Juve.
«Storie diverse. Paulo si è sentito trascurato e poi è stato mollato dalla Juve. Ora sono felice che stia facendo cose belle nella Roma. Non sono d’accordo però sulla definizione di faro della squadra: Dybala è un giocatore di qualità che concretizza, se sta bene, ma non è un trascinatore».

Come giudica la scelta della Roma di privarsi di Zaniolo? Qualcuno lo paragonava a lei, Boniek.
«Ma io sapevo fare più ruoli… Detto ciò, mi dispiace che sia finita così. Nicolò è stato gestito male, la Roma non ha colpe. Non capisco questa logica del calcio contemporaneo secondo cui i contratti si debbano per forza rinnovare due anni prima della scadenza. Ora si parla di prolungamento anche per Mourinho. Ma perché? Prima si ottengono i risultati, poi si decide se continuare insieme. E attenzione: io spero che José rimanga il più a lungo possibile a Roma».

Meglio Mourinho o Allegri?
«Non si può discutere con i numeri: la bacheca di Mourinho parla chiaro. Però io non so scegliere. E allora uso il gergo ippico di Allegri: serve il giudice d’arrivo per decidere chi sia più bravo riguardando il fotofinish. È un duello di corto muso».

Allegri sta gestendo una transizione difficile. Come si chiuderà la vicenda Juve?
«Spero che la squadra non paghi certi errori dei dirigenti. Ma potrebbe succedere: già c’è una penalizzazione. Andrea Agnelli si è infilato dentro i problemi da solo. Pensa alla Superlega. Quando parlava a me e Ceferin in seno all’Uefa, non faceva trasparire segnali di tradimento… Anche perché la Champions League è già una Superlega, che però premia il merito sportivo. Non siamo negli Stati Uniti. Un tifoso non accetterebbe un torneo a inviti».

In Europa c’è l’Eurolega di basket.
«Non voglio essere cattivo ma è un format che non segue nessuno».

Lei è ormai un affermato dirigente internazionale. Continuerà a lavorare nell’Uefa?
«Vedremo cosa mi riserverà il futuro».

È stato accostato anche alla Roma dei Friedkin.
«La stima fa piacere ma non c’è niente».

Da presidente della federcalcio polacca però ha scoperto Zalewski. Vero?
«Sì, ma il merito è del tennista Flavio Cobolli, che io conosco (la figlia Karolina è sposata con Vincenzo Santopadre, attuale allenatore di Berrettini, nda). Lui da ragazzino giocava nelle giovanili della Roma e mi suggerì di dare un’occhiata a Nicola. Mi colpì subito, in effetti. E parlando alla famiglia capii che era contento di giocare per la Polonia. Credo abbia fatto una buona scelta. In Italia quanto avrebbe dovuto aspettare prima di raggiungere la Nazionale?».

Perché Boniek ha deciso di smettere di allenare dopo le esperienze di inizio Anni 90?
«Troppo stress. E nemmeno si guadagnava così tanto da giustificarlo. Volevo più tempo per me e la famiglia. Ma devo anche riconoscere che se la mia carriera di tecnico fosse cominciata meglio, forse avrei continuato».

Lecce, Bari, Sambenedettese, Avellino, poi un breve passaggio alla nazionale polacca. Sipario.
«All’Avellino conquistai la promozione in B. Ma il mio rimpianto è la stagione d’esordio, a Lecce. Partimmo forte, poi persi tre giocatori per infortunio. A dicembre stavamo per prendere Zola dal Napoli, ma il trasferimento saltò perché c’erano problemi con Maradona, che infatti venne squalificato per doping. E così il Lecce retrocesse. Se fosse venuto Gianfranco, forse la mia storia sarebbe stata diversa».

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