L’azienda Santiago Castro: in famiglia «ognuno ha il suo compito per aiutarmi». La mission è diventare come Lautaro Martinez. «Lo guardo, studio i suoi movimenti e cerco di fare come lui». C’è un parente che fa «il video analyst che mi manda sempre i filmati delle mie partite». Santi si riguarda ogni volta, si riguarda ogni gara e come un tifoso quando nota un errore s’infuria terribilmente con se stesso. «Uhh quanto mi arrabbio: davanti al monitor mi dico “dovevo fare così o così” e dopo cerco di pensarlo e di fare la cosa giusta già in allenamento, soprattutto quando sono spalle alla porta». Poi c’è suo papà Dario, ora 43enne, con un passato da centrocampista «di corsa, ma con i piedi male, ci scherziamo sempre su» nella serie B e nella serie C in Argentina: è il suo «primo allenatore». Non solo perchè quando Santiago aveva 3 anni lo aveva iscritto nella “sua” squadra di «baby football» e lo faceva giocare «con i bambini di 5 anni», ma anche perchè tutt’ora lo riempie di consigli, di suggerimenti. «Mi ripete sempre come devo controllare il pallone, come devo calciarlo, e mi dice che devo migliorare nel gioco». A completare il quadro c’è il lavoro di una «psicologa», lei non di famiglia, e poi c’è lui: «Sono io il direttore, se non mi vanno bene li licenzio». Castro se la ride di gusto. Autoritario, proprio non lo sembra, nemmeno a se stesso. E infatti aggiunge subito: «Mi amano e mi dicono cosa fare per il mio bene». In una chat di famiglia ci si scatena e ci si provoca soprattutto nel periodo del Clasico Boca-River. C’è rivalita sportiva in casa, tra i nonni, schierati su fazioni opposte. Col papà, Santi ha un rapporto «speciale». I due sono legatissimi non solo perchè anche Dario è «molto “loco” per il calcio»: «Ci divertiamo, scherziamo insieme, condividiamo tanto e per me è anche come un fratello maggiore. In Argentina vivevamo sempre insieme, mi manca molto e la lontananza è difficile per entrambi, ma è venuto qua il 13 per il mio compleanno e sarà a Liverpool».
Le ha detto qualcosa in vista di questa magica sfida di Champions League?
«Che se segno non sa cosa potrebbe fare allo stadio, ho paura di guardare la tribuna».
E lei cosa gli ha risposto?
«Che prima c’è la partita contro l’Atalanta».
È la mentalità della scorsa stagione.
«Sappiamo che la Champions League è speciale. Quando giocando a Fifa ascoltavo la musichetta era bellissimo, poi mentre la sentivo dal campo – nella gara d’esordio contro lo Shakhtar Donetsk – pensavo a tutto quello che avevo passato per essere lì e mi è venuta la pelle d’oca a sentire i nostri tifosi cantarla. Ma noi dobbiamo pensare a tutto: anche a quando arriverà la coppa Italia. Adesso c’è l’Atalanta e dopo il Liverpool, se guardiamo oltre per me sbagliamo».
Com’è questo Bologna rispetto a quello di Motta?
«Per me siamo uguali all’anno scorso. Siamo una famiglia. Di diverso c’è che gli avversari adesso giocano in un altro modo contro di noi. Non è più la stessa cosa».
E non è la stessa cosa nemmeno per lei. Ora che Zirkzee è andato al Manchester United è lei ad aver ereditato le sue responsabilità in attacco.
«Joshua, qui a Bologna, ha fatto un qualcosa di straordinario. Ha dimostrato un gran livello. Io l’ho guardato molto cercando di imparare da lui che quando è andato via mi ha detto che mi ha visto preparato e che devo continuare a lavorare. Mi ha mandato un messaggio il giorno del mio compleanno, che poi è stato il giorno dell’esordio in Champions. Mi ha scritto cose importanti. Indossare il numero 9 dopo di lui, ma anche dopo Julio Cruz, dopo Marco Di Vaio, dopo Rodrigo Palacio è una bella responsabilità. A me le responsabilità piacciono, anzi le cerco».
Intanto nelle ultime due trasferte consecutive a Como e a Monza ha fatto gol.
«Uno e due gol, ma io penso a dover fare di più. Anche mio papà mi dice che devo andare per fare di più».
Castro si è conquistato le prime pagine del Corriere dello Sport-Stadio, che può guardare davanti a sè.
«Che bello, le porto a mio padre».
Quello di Monza è il più bello della sua, pur giovane, carriera?
«Non so se il più bello, perche al Velez ne ho fatti 2 bellissimi con River e Tucuman, ma è nella top 3, per ora»
Giustamente ha voglia di fare tanti altri gol bellissimi, ma si è dato un obiettivo di reti da raggiungere in questa stagione?
«Non penso a quanti gol farò, se penso 10 e poi non li segno dopo fa male alla testa, alla mentalità. Io so che a chi lavora bene poi arriva tutto. Credo che se lavoro bene e gioco bene il gol arriva da solo».
Lei ha sempre lavorato duramente in campo. Da quando è arrivato a Casteldebole cosa ha imparato di nuovo prima con Thiago Motta e poi con Vincenzo Italiano?
«Sono migliorato come gioco. Prima andavo più in profondità, mentre adesso gioco di più con la squadra, come faceva Joshua. In Italia il centravanti tocca molto il pallone e sono migliorato in questo aspetto. Come ho detto dal primo giorno che ho parlato pubblicamente io sono un giocatore che lavora per la squadra: posso fare gol, posso fare assist, ma se non li faccio nessun problema perchè devo recuperare il pallone e dare un gioco molto bello alla squadra».
Con Italiano che suggerimenti ti ha dato finora?
«Ha detto subito che se il centravanti gioca bene la squadra gioca bene e per questo io faccio un lavoro che va oltre l’individuale. Già nella prima settimana del suo arrivo il mister mi ha parlato. Aveva lavorato con Vlahovic, con Lucas Beltran. Io lo ascolto molto e ascolto molto tutto il suo staff perchè sono persone che vivono il calcio da molto tempo e in questo periodo mi ha aiutato moltissimo. Ho parlato di Italiano con Beltran».
Ma è più severo Italiano o suo papà Dario?
«Uguali» ride. «Come Italiano mi dice di tirare sempre, quando posso e forte. E più alto»
Il nuovo stile di gioco portato al Bologna da Italiano è meglio per lei o per l’attaccante in generale rispetto a quello di un anno fa?
«Dipende dall’avversario che incontri, se sta chiuso nella propria metà campo o si gioca più aperto. L’idea di voler tenere il pallone è la stessa dell’anno scorso, quest’anno siamo più verticali. L’allenatore ci dice di mantenere il possesso e quando non ce lo abbiamo di cercare di recuperarlo il più possibile vicino alla porta avversaria».
Per il suo stile di gioco, lei è stato paragonato al suo connazionale Lautaro Martinez.
«Io lo guardo molto. Non è uguale, ma io penso a giocare come lui che è un giocatore fortissimo, che è un capitano di una delle squadre più grandi del mondo. L’ho conosciuto personalmente prima di Bologna-Inter della scorsa stagione e mi ha detto che il calcio italiano è durissimo. Nello stile di gioco siamo simili, io ho guardato i suoi movimenti, non solo i suoi ma di tutti i numeri 9. Con Retegui ho parlato prima di Genoa-Bologna, mamma mia, un gran giocatore. Per la “garra” mi hanno accostato a Tevez, quella non deve mancare mai. Ma io guardo anche Julian Alvarez perchè per me guardare un giocatore di classe mondiale è meglio: posso nutrirmi da questi».
Oltre a nutrirsi delle giocate e dei movimenti di campioni lei è un giocatore che ascolta anche i conisgli degli altri?
«In questa squadra ci sono Lollo De Silvestri, Remo Freuler, Riccardo Orso e io li ascolto tutti perchè, mentre io sto iniziando, loro hanno più esperienza».
Gli ultimi 5 gol del Bologna, però, li hanno realizzati tutti giocatori nati nel 2004, come lei, o nel 2003. Una generazione che può esaltare i bolognesi. Un marchio di fabbrica.
«Il calcio di oggi è questo: c’è l’esempio Yamal. Per noi è positivo che i giovani facciano gol ed è importante per la squadra, possiamo essere una nuova immagine per il Bologna».
Che differenze ha trovato con i difensori del campionato argentino?
«Qui picchiano di più ma provocano di meno. A me piace lo scontro anche verbale, io parlo molto in campo, dico le cose al mio avversario, ma non bisogna mai mancare di rispetto. Alcuni stranieri invece non parlano, forse è proprio una caratteristica latina».
In estate, per il bene della famig lia rossoblù ha dovuto rinunciare a partecipare alle Olimpiadi con l’Argentina.
«Per me giocare per l’Argentina è tutto. Mascherano è un grande allenatore che mi ha aiutato molto: ha carisma e quello che dice ti entra dentro. Certo, non andare mi è dispiaciuto. All’inizio della preparazione Giovanni (Sartori ndr) e Marco (Di Vaio ndr) me lo hanno detto e mi hanno spiegato perchè. Nella mia testa da quel momento c’è subito stato un click. Mi sono detto “ok, ora tutto sul Bologna”. E quel lavoro in ritiro è stato fondamentale».
Però qualche assist di Ndoye non è riuscito a sfruttarlo al massimo…
«Puff, Dan è fortissimo, uno dei migliori in serie A nell’uno contro uno e adesso quando mi darà il pallone non devo sbagliare più».
Intanto sta crescendo la sua intesa con Fabbian.
«Ci stiamo conoscendo, ci prepariamo, ci scambiamo sguardi e piano piano facendo bene insieme, lo faccio anche con Urbanski: in un anno o due faremo come Ferguson e Zirkzee che hanno poi detto come fosse importante per loro due giocare uno al fianco dell’altro».
Ma il suo idolo in assoluto chi è?
«Messi, lo seguo fin da piccolo. Chi è nato dopo il 2002 in Argentina guarda Messi. Maradona è un idolo, ma è lassù, lontano».
E alla nazionale ci pensa? Nel 2026 ci sarà il Campionato del Mondo.
«Quello è un sogno, ma penso all’oggi. II calcio è strano. Io devo occuparmi di migliorare, crescere e lavorare per la squadra, anche se fra un gol a Liverpool e la nazionale non ho dubbi: l’albiceleste».
Sulla gamba Castro si è anche tatuato la Torre di Maratona, simbolo dello stadio Dall’Ara.
«Mi piace: io voglio raccontare la storia sulla mia pelle. Ho una ventina di tatuaggi e tra poco ne aggiungerò uno sul braccio, un simbolo del Velez».
E i tortellini?
«Non li mangio molto, perchè devo mangiare sano».
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