Baresi: “Oggi i giocatori sono brand, io non so se lo farei…”

Franco Baresi, durante la presentazione del suo libro ‘Libero di sognare’, ha rilasciato delle dichiarazioni davanti agli ospiti presenti

Stefano Bressi

7 ottobre – Milano

Franco Baresi, ex capitano e leggenda del Milan, ha presentato il suo nuovo libro intitolato ‘Libero di sognare‘. La presentazione è avvenuta nella suggestiva sede de ‘La Feltrinelli’ di Milano e non è mancata l’occasione per raccontare aneddoti della sua vita personale e del Milan. Queste le parole dell’ex difensore.

Su Milano: “Abbiamo visto in tanti crescere Milano. sono arrivato a 14 anni, ero spaventato. Sono passati 40 anni. È cambiata un po’… È ora una città europea che mi ha dato tanto. Milano per me è casa. Non dimentico le origini, ma ormai sono 40 anni. Sono un po’ più milanese che di Travagliato. I ritmi sono diversi, la città ti offre cose che il paese non offre”.

Sul libro: “L’ho scritto pensando di non voler scrivere cose banali. Volevo dare un segnale. Il filo conduttore è la finale di Pasadina del 94. Tutti mi chiedono sempre com’è stato possibile fare una prestazione del genere in una finale Mondiale dopo un’operazione. Così ho deciso di spiegare cosa c’era in quel ragazzo. Dando un segnale ai giovani di oggi. Sognare si può. Anche nelle difficoltà”.

Sull’oratorio da cui parte la storia del libro e Don Piero: “Una persona e una tappa fondamentale. Lui è stato il primo a trovare la chiave per coinvolgere i giovani, sviluppando il talento, ma crescendo in libertà. Tutti potevano sviluppare la loro passione. Ha coinvolto la comunità in modo straordinario. Poi in quegli anni ha trovato una covata di talenti”.

Cosa voleva in cambio Don Piero: “Voleva che il comportamento e l’educazione fossero perfetti. C’erano regole, anche per i genitori. È umano che un genitore voglia il meglio per i propri figli, ma deve capire dove può arrivare. Ci sono le tappe. Un genitore deve capire quando fare un passo indietro. La pressione eccessiva diventa negativa”.

Sul messaggio: ”Ho dovuto ripercorrere tanti anni. Se riuscirò a ispirare anche solo uno, avrò raggiunto l’obiettivo. Ispirare giovani e meno giovani. La cosa fondamentale è sempre l’aspetto umano, non deve mai mancare”.

La partita perfetta: “Non esiste. In una partita puoi avvicinarti al massimo della prestazione, in cui la squadra fa tutto ciò che aveva preparato, divertendo e divertendosi. Uno può essere soddisfatto, perché ha emozionato. Era il nostro segreto col Milan. Abbiamo avuto la determinazione di vincere ed emozionare, era il nostro segreto”.

Su Brera: “Quando arrivò Sacchi, il suo modo di interpretare il calcio, le idee… Noi siamo sempre legati alla nostra cultura. Brera era restio alla novità, pensava non durasse a lungo. Invece è stato il contrario, ha rivoluzionato il calcio. Ha trovato dei giocatori che hanno esaltato le sue idee e lui ci ha esaltato”.

Su Sacchi: “Nessuno lo conosceva, eravamo curiosi, ma non prevenuti. Venivamo da anni difficili. Nessuno aveva vinto. Eravamo vogliosi di fare cose nuove e speciali. Ci siamo accorti dopo poco che gli allenamenti che chiedeva erano coinvolgenti. L’abbiamo seguito e sappiamo com’è andata. È cambiato il modo di allenarsi. Andavamo a 100 all’ora anche in allenamento, come in partita. Quando mi allenavo bene, non avevo paura di nessuno la domenica”.

Sul suo percorso: “Ho giocato negli anni 70, era un calcio diverso. Non so se farei un post su Instagram con i miei addominali. Ma ora un calciatore non deve pensare solo al campo, ma alla propria immagine. I giocatori sono dei brand. Io non lo so se lo farei”.

La differenza tra un campione è un giocatore: Un campione capisce, intuisce… Il compagno, il gioco, magari anche l’errore. Ci sono errori diversi. Tecnici, in cui uno sbaglia e capita. Poi quelli antisportivi, che pesano. Che fai magari non volendo, perché non vuoi farti vedere debole. Il campione deve gestire tutto questo. Capire il compagno, come muoversi al momento giusto”.

Se si impara da una sconfitta o da una vittoria di più: “Da entrambe. Dalla sconfitta perché qualcosa non è andato bene e si può migliorare. Dalla vittoria che c’è qualcuno che ti può battere la prossima volta. Mai sentirsi superiori e rispettare l’avversario”.

“Strada facendo si impara a gestire una squadra e un gruppo. Mi ha aiutato il mio percorso. Cresci e capisci tante cose. C’è l’atleta, ma prima c’è la persona. Diventa importante capire cosa hanno bisogno gli altri. Se tu sei disponibile, la disponibilità ritorna. Ce l’abbiamo dentro tutti, ma a volte corriamo troppo perché presi dalla vita e dalla professione. Bisogna fermarsi. Il lockdown ci ha fatto fermare tutti. In quel periodo abbiamo dato importanza alle cose che avevamo dimenticato. Poi si fa in fretta a dimenticare d nuovo”.

La differenza tra un giocatore di Serie A e di San Siro: “Vedere lo stadio pieno di gente è incredibile. È diventata casa mia e negli anni ho capito che San Siro è un monumento che dà molto, ma chiede responsabilità. Con una maglia pesante, a volte non tutti si riescono a imporre a San Siro. Ci vuole una forza diversa. Il pubblico milanese è esigente, ma poi ti dà. Ho vissuto anni anche in Serie B. L’importante è sempre l’atteggiamento”.

Sulla storia del Milan, bassi e alti: “È l’atteggiamento che la gente vuole. Che tu dia tutto ciò che hai. La gente lo percepisce e va bene”.

Sulla fascia: “L’ho avuta a 22 anni. Ero molto giovane. Ho imparato strada facendo. L’ho presa in Serie B…”

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