Antignozzi, sotto alla maglia del Milan c’è una pancia come un pallone

DAL PAESE ALLA LAZIO. Il primo pallone non glielo ha regalato il papà che il calcio lo odiava. “Con due figlie pensava di essersela cavata e invece… La calciofila è mamma – racconta Roberta – E’ lei che mi ha portato a giocare in un paese vicino. In quella squadra c’erano molti miei compagni di scuola, per fortuna. Mi facevano sentire protetta, perché mentre giocavo c’era chi me ne diceva di tutti i colori: “vai a fare la calza, vai a cucinà”; se sbagliavo poi mi massacravano. Ho capito subito che contro l’ignoranza non ci potevo fare nulla, dovevo rispondere sul campo”.

Dal paese alla Lazio, una super Lazio a quei tempi, è un salto da vuoto in pancia ma si fa, a dispetto dei chilometri da affrontare ogni giorno per allenarsi e gli studi rinviati alla notte. “Al provino mi ha portato mia madre ovviamente. Ero indietro rispetto alle altre, e anche timida però grintosa. Noi piccole giocavamo a cinque, mi fermavo a guardare gli allenamenti delle grandi; il mio idolo era Simona Di Renzo. Mi è rimasta nel cuore l’esperienza di quella Lazio e di quelle giocatrici come Di Bari, Frollani, Caprini. Non è un caso se il ricordo più bello della mia carriera sia legato a quella squadra: lo scudetto con la Primavera. Ci allenava Patrizia Panico, non parlava ma tu andavi a morire in campo per lei. Mi mi ha insegnato la determinazione”.

OLTRE IL DOLORE. Il calcio è un salvavita. Così è stato per Roberta, segnata da una serie di lutti che potevano fermarla. “Prima un compagno di classe, quanta tristezza quel banco vuoto. Poi un cugino carissimo: con lui giocavo a calcio, mi portava in giro in motorino e mi faceva gridare forza Lazio, a me che sono romanista! La sua perdita è stata dolorosissima. E ancora alcuni fratelli di mio padre, eravamo una famiglia immensa, trenta cugini cresciuti nello stesso palazzo. Ho dovuto imparare in fretta a gestire il dolore, il calcio mi ha dato la forza di reagire e trovare soluzioni per andare avanti. Senza il pallone chissà…”.

Roberta va avanti e realizza quello che voleva e sognava. Da quella super Lazio, la Roma, e il Milan, l’Inter, tra serie A e A2, il calcio continua ma il futuro è un pensiero a cui dar retta, e Roberta deve scegliere. “Di solo calcio non si viveva, dovevo lavorare. Fallito il test per entrare a fisioterapia mi sono buttata nel fitness. Se avessi avuto un altro carattere forse avrei fatto qualcosa di più. Ma non ho rimpanti, quando scelgo scelgo da sola”.

IL MILAN LA VA A CERCARE. Nel 2015 la Figc impone alle squadre professionistiche di avviare i settori giovanili femminili, intanto Roberta da due anni ha fondato una sua società, “Dreamers”, la svolta è nell’aria: il Milan la va a cercare. “Mi ha chiamato senza che conoscessi nessuno affidandomi il progetto: in due mesi dovevo mettere su il settore giovanile dal nulla. Ed eccomi qui, in rossonero, ad allenare dopo aver lavorato per circa tre anni come coordinatrice, responsabile scouting e tecnica”.

Se ami il calcio e quello che rappresenta, gioia, crescita, sfida, di certo non solo tecnica, allenare le adolescenti è una bella messa in pratica di tutto questo ricco manuale. “Il calcio forma e fa crescere umanamente. Alleno un’età complicata, le tredici-quartodicenni, sono nei primi anni del ciclo, della trasformazione del corpo, è tutto complicato. Sono severa in campo e amica fuori, le mie ragazze sanno che su di me possono contare sempre. Credo nella disciplina del lavoro. Non accetto la mancanza di impegno, l’errore invece ci sta, sbagliare insegna qualcosa. Bisogna imparare che non si può essere perfetti. Si può eccellere se l’impegno è massimo, il mio motto infatti è “eccellere è una scelta”. Io non sono stata la più forte, ma mi sono tolta tante soddisfazioni”.

IN CAMPO COL PANCIONE. I calciatori si mettono il pallone sotto alla maglia per dire che diverranno padri, una donna il suo pallone vero e pieno di vita ce l’ha dentro e lo porta con sé anche in allenamento. Roberta a fine aprile partorirà Davide, il suo papà fa il preparatore dei portieri, l’amore ruota attorno alla sfera magica che è il pallone. Ci vuole coraggio in questi tempi di Covid e nella precarietà di un lavoro come il suo a scegliere di fare un figlio. “La gravidanza non è una cosa eccezionale. E una donna non può essere esclusa o retrocessa nel lavoro. Il Milan è molto attento alle persone prima di tutto. Quando sono arrivata nel club ho fatto aggiungere il punto sulla gravidanza che mancava, e ancora non esistevano leggi a riguardo. Una gravidanza può succedere, anzi deve succedere. Certo non è facile in pandemia. La cosa più banale è che le visite, le ecografie le ho fatte tutte da sola, senza il mio compagno. Davide non era stato programmato, ma il desiderio c’era, e senza un figlio non mi sentirei completa”.

Ha messo da parte gli addominali scolpiti, la pancia è bella ma invadente, le tute si sono slabbrate, il seno è cresciuto e dà fastidio, però… “Però mi godo il momento. Ho allenato sul campo, come da regolamento Figc, fino al quinto mese, poi fuori con il mio vice. Ora sono a casa, incontro le ragazze in video. Mi mancano, anche se mi fanno dannare. E mi manca il calcio perché è la mia passione. Mi alleno intanto, tre volte a settimana faccio i miei circuiti e vado a camminare. Mi sento come una vecchietta”.

IL MILAN UN ESEMPIO. Sono pochissime le gravidanze tra le atlete. Si fa fatica a mollare l’attività per una serie di motivi, e si rinvia a fine carriera. Certo essere allenatrice è diverso, ma l’interruzione c’è comunque e la tutela non è ancora il massimo. “Il calcio femminile ha fatto tanti passi avanti, la maternità adesso ha una garanzia economica (mille euro al mese per massimo dieci mesi, ndr), mentre prima anche quando ti facevi male ti abbandonavano e smettevano di pagarti. Penso che tutte le società organizzate possano tutelare le donne ed essere un esempio. Come lo è il Milan”.

Certo dovrebbe pensarci lo Stato, come per tutte le lavoratrici, il professionismo per le atlete significa tutela dei diritti e il riconoscimento che il calcio, nello specifico, è sì un gioco ma anche un lavoro, come per gli uomini così per le donne. “Con il professionismo si garantirà il futuro alle giovani e alle bambine che si avvicinano al calcio, perché potranno davvero pensarlo come un lavoro. Ma in attesa che sia attuato le società devono attrezzarsi. Il Milan è stata la prima società a versare i contributi alle sue calciatrici. Con l’istituzione del RespAct il club lavora per l’inclusione e contro la discriminazione. I regolamenti e le leggi sono fondamentali, ma la differenza la fanno anche le società. Io so di essere in un club che è una famiglia unica, fatta di maschi e femmine“.

Bello far parte della stessa famiglia di Ibrahimovic. Chissà se fa paura incontrarlo, non finisce mai e non perché è alto quasi due metri, ma con quella sua personalità strabordante ingombra. “All’altezza sono abituata, Alessandro, il mio compagno, è alto 190 centimetri. Ibra non l’ho mai visto da vicino. Gente come lui o Ronaldo hanno una mentalità diversa, valgono doppio, se alla loro età giocano a certi livelli e con certi risultati vuol dire che hanno qualcosa dentro di grande. Hanno personalità che mi intrigano, li studio per poi parlarne con le mie ragazze”.

LA VERA RIVOLUZIONE E’ LA NORMALITA’. Il calcio femminile sta crescendo, nonostante i pregiudizi duri a morire. Ma le donne ormai se ne infischiano, sanno quello che fanno e come lo fanno. Roberta Antignozzi ha in mano le calciatrici del futuro che saranno un altro mondo rispetto a oggi. “I pregiudizi ce li ha chi non ha conoscenza. Il calcio cresce perché ci sono calciatrici di più alto livello, straniere di peso che vengono in serie A, e poi è cambiato il metodo di allenamento. Io uso sempre il pallone per esempio, una volta non era così. Le ragazzine di oggi saranno più brave di calciatrici top di oggi come Girelli, Bonansea, Giacinti”.

A proposito di pregiudizi, il suo pancione è una dichiarazione di eterosessualità forse? Un coming out? No, vero? Un etero non ha bisogno di dichiararsi, un omosessuale invece sì. Cantava Lucio Dalla “l’impresa eccezionale dammi retta è essere normale”. “L’omosessualità è ovunque, non è di certo concetrata tutta nel calcio femminile – ironizza Roberta – Ancora a questo punto siamo. Forse la vera conquista è non rendere eccezionale quello che si è, un po’ come la gravidanza: la vera rivoluzione è la normalità. Poi penso che dichiararsi non fa che esasperare le cose, renderle diverse. A me non importa se alleno un omosessuale o un etero, mi interessa la professionalità. Una cosa però va detta: non è che entrare nel mondo del calcio ti fa cambiare orientamento”. 

SCUDETTI. Ad aprile Davide vedrà la luce, mentre sarà ancora più chiaro a chi verrà assegnato lo scudetto. Il Milan insegue, quei tre punti non riesce proprio a rosicchiarli alla Juventus, eppure le rossonere possono cambiare la storia e interrompere il filotto bianconero: tre campionati tre scudetti finora. “Direi basta Juve! Però una cosa bella ce l’ha quella squadra… Rita Gaurino, la coach, il mio idolo. A parte gli scherzi, è un campionato particolare, le piccole hanno dato filo da torcere alle grandi. Mi piace il Sassuolo e la Roma ha un bel gioco. Lo scudetto? Non si dice”.

Anche a Milano si è scaramantici, chi lo avrebbe detto. Allora proviamo con gli uomini, con un Milan che ha rallentato, che soffre e si è fatto raggiungere e superare dall’Inter. “Vietato parlare anche del maschile. Ma vedo una lotta a tre: il Milan, la Juve che quando si mette a inseguire diventa pericolosa e l’Inter che, fuori da ogni competizione e con una rosa importante, è quella che temo di più”.

E poi ci sarebbe la Roma, che Roberta ama da sempre, anche se suo cugino le faceva urlare forza Lazio. Ma nel caso della Roma ogni considerazione sarebbe dettata dal cuore che, si sa, ha spesso gli occhi bendati. «Sì, direi che la lotta resta a tre», sorride Roberta e si accarezza la pancia, dentro c’è un bimbo e le sue ragazze  erano certe che si sarebbe chiamato Francesco: invece sarà Davide e nascerà con la maglia rossonera e il cuore grosso, mezzo giallo mezzo rosso.

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