Ametrano: “Col Napoli legame forte, la maglia della Juve pesa. Ribery? Scelta d’amore”

Mille colori, mille parole, la voce di un bambino. Poi un sole amaro, l’odore del mare e una carta sporca. È Napoli, nel bene e nel male. È Napoli, nelle parole di Pino Daniele, il compagno di viaggio di Raffaele Ametrano, l’ex ragazzo di talento di Castellammare di Stabia che un giorno si è arrampicato in cima al mondo. Suo padre lavorava alla Fincantieri, lui con passione e sudore è arrivato a stringere la mano a Maradona. Il 1996 gli ha cambiato la vita, forse troppo in fretta: con l’Italia Under 21 ha vinto gli Europei, con la Juve di Del Piero la Coppa Intercontinentale contro il River a Tokyo. Emozioni uniche che oggi è bello rivivere ad Udine, la sua seconda casa dopo la terra natia. Quella Campania dove Ametrano ha giocato praticamente ovunque, dove tanti ragazzi sognano in grande come lui in passato. Col pallone tra i piedi.

Raffaele, lei fa l’allenatore: che momento sta vivendo?

Ho iniziato nel 2010 come secondo di Rastelli al Brindisi. Poi ho lavorato nel settore giovanile dell’Udinese per quattro anni. Nella mia ultima esperienza ho fatto il vice di Sullo al Padova per una stagione. Adesso lavoro per una società qui ad Udine sempre a livello giovanile e mi diverto. Rastelli e Sullo sono due grandi allenatori. Massimo allena da tempo come primo. Salvatore è stato vice di Ventura al Bari, al Torino e in Nazionale. Adesso guida l’ACR Messina in Serie C. Ha una grande carriera davanti.

Che cosa l’ha spinta a fare l’allenatore?

La passione per il calcio ti rimane addosso. Ad un certo punto purtroppo è impossibile restare in campo. Io a nove anni ero già iscritto alla scuola calcio, mi sono ritirato quando ne avevo 38. Non è stato facile abbandonare questo sport. La passione che mi spinge ancora a stare sul campo è forte. Mi piace allenare i ragazzi perché assorbono tanto dall’allenatore. Coi grandi è diverso, c’è più da gestire che da allenare.

Com’è nata la sua passione per il calcio? C’erano sportivi in famiglia?

No, in famiglia nessuno era arrivato a questi livelli. Mio padre faceva tutt’altro: lavorava alla Fincantieri a Castellammare. A 13 anni ho fatto un provino col Napoli: è andato bene ed è cominciata l’avventura nelle giovanili azzurre. Sono passato all’Ischia in Serie C, poi sono arrivate l’Udinese e la Juventus.

Era giovane quando c’era Maradona al Napoli: che cosa ricorda?

Ho avuto la fortuna di trovarmi lì. Era bellissimo. Il Napoli aveva il giocatore più forte del mondo nella sua squadra. Si vincevano scudetti e coppe. È stato bello assistere in prima persona a tutto questo. Tante volte ero in campo a fare il raccattapalle e vedere Maradona dal vivo era un sogno.

Ha un aneddoto legato a Diego?

Una volta io e Fabio Cannavaro abbiamo chiesto a Maradona i suoi scarpini: era giovedì, il giorno della partitella del Napoli in vista della domenica. Ci ha detto ‘ok’, ma non pensavamo che sarebbe successo. Due giorni dopo negli spogliatoi sono arrivati due pacchi coi suoi scarpini all’interno. In quel momento abbiamo capito quanto fosse grande. Poi ha passato brutte vicende danneggiando soprattutto se stesso.

Quale eredità ha lasciato Maradona alla città di Napoli?

L’orgoglio che il napoletano si porta dentro. Vederlo giocare è stata una fortuna. Con Maradona il Napoli ha vinto per la prima volta e si è messo alle spalle le superpotenze del calcio italiano. La gente di Napoli nutre un amore sconfinato verso quel giocatore e quell’uomo che in sette anni ha fatto davvero tanto.

Che legame c’è tra lei e la maglia del Napoli?

Forte. Quando ho iniziato il settore giovanile, la prima squadra portava a casa un successo dietro l’altro. Poi tutti sognano di giocare al San Paolo: è uno stadio speciale. Mi è capitata l’occasione di ritornare al Napoli nel 2002 e l’ho presa al volo. Per me tornarci è stato un po’ come chiudere un cerchio.

Nel 1996 lei ha vinto con l’Italia U21 ed è andato alla Juve: le ha cambiato la vita?

È arrivato un po’ tutto in fretta. È stato un anno speciale, il primo in Serie A con la maglia dell’Udinese. Poi abbiamo vinto l’Europeo Under 21 contro la Spagna. Ho partecipato anche alle Olimpiadi di Atlanta. La chiamata della Juve è stata speciale per me. Ho avuto la fortuna di essere in panchina a Tokyo quando abbiamo vinto la Coppa Intercontinentale.

La Juve aveva appena vinto la Champions League: com’è stato l’impatto coi bianconeri?

Ho sentito molto il trasferimento. Ho lasciato l’Udinese, una società top però a gestione più familiare. Quando sono arrivato a Torino ho capito subito che lì era tutta un’altra storia. La maglia della Juve pesa molto di più, il club non ti aspetta. Devi essere subito pronto. Due mesi prima la squadra aveva vinto la Champions, c’erano giocatori incredibili che hanno fatto la storia del club e delle loro nazionali. Poi c’era Lippi che ha vinto tutto. Forse per me non era ancora il momento giusto, ero troppo giovane e mi sono accontentato del mio ruolo. C’erano Antonio Conte, Deschamps, Jugovic, Di Livio: calciatori più esperti di me. Mi serviva più tempo, ma la Juve vuole tutto subito: anche per questo motivo resta ai vertici.

Che cosa ricorda della finale contro il River Plate a Tokyo?

Eravamo partiti una settimana prima. Era la mia prima esperienza in una finale di coppa a livello di club. Io ero agitato alla partenza, i giocatori più importanti erano sereni. Temevo che stessero snobbando la finale. Il giorno della vigilia non volava più nemmeno una mosca nello spogliatoio. Tutti hanno cambiato atteggiamento. È stato bello. Per me vederli allenare e osservare come si comportavano era come andare a scuola. Mi è rimasto dentro e cerco di trasferirlo a tutti. Bisogna essere sempre campioni a 360 gradi.

Che cosa è mancato alla Juve per rivincere la Champions dal 1996 ad oggi?

Hanno perso cinque finali di fila. Tante. Contro il Milan sono caduti ai rigori. Quando ha sfidato il Barça, la Juve aveva la squadra per fare la partita, purtroppo non ha saputo giocarsela alla pari. Col Borussia Dortmund era favorita, poi il campo ha dimostrato tutt’altro. Gli episodi pesano. Come ci si arriva e lo stato di forma fanno la differenza. Per arrivare in finale bisogna vincere tante gare e gestire le energie.

Che momento sta vivendo la Juve adesso? 

La società ha dominato per nove anni in Italia e in Europa. Giocare due finali di Champions ravvicinate non è semplice contro società che si possono permettere qualsiasi cosa. Poi la Juve ha cercato di cambiare qualcosa e lì secondo me si sono rotti degli equilibri. Adesso la società è cambiata, è tornato Allegri. Il suo compito principale sarà ricostruire quegli stessi equilibri che la Juve in passato aveva saputo creare.

Separarsi da Ronaldo Cristiano è stato coraggioso?

Tutto finisce. Ronaldo era stato preso per vincere la Champions, ma non è andata. Era il momento giusto per lasciarsi. La tempistica poteva essere diversa, ma era arrivato comunque il momento di dividersi.

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