Alessio: “Feeling con Conte nato per caso. Rimpianti? Quel pari col Benfica…”

Capaccio Paestum, il Tirreno che fa rumore e oltre quella distesa azzurra un mito sardo e lontano: Gigi Riva. Storie di Anni ‘70 in Campania tra sogni, palloni che rotolano sulla spiaggia e impronte lasciate sulla sabbia, segno della fatica e della passione.  Angelo Alessio ha cominciato giocando coi suoi fratelli, poi è arrivata la chiamata dell’Avellino: una finestra sulla Serie A, prima del grande salto a Torino sponda Juve. Proprio lì, dove nel 1991 è arrivato un altro ragazzo del sud, Antonio Conte da Lecce, che con Angelo Alessio ha condiviso subito il campo e vent’anni dopo la panchina. Con loro è rinato il mito Juve dopo gli anni amari di Calciopoli e sono ritornati a Torino gli scudetti, tre di fila prima dell’addio improvviso nell’estate 2014. Sono passati sette anni da allora e oggi Angelo corre da solo, ma non dimentica ciò che è stato. E dopo quella Juve è pronto a vivere una nuova grande avventura.

Angelo, la sua ultima esperienza è stata in Scozia al Kilmarnock: come è andata?

La considero una buona esperienza, anche se sono stato esonerato da quinto in classifica. Eravamo terzi a ottobre, avevo ricevuto anche il premio come migliore allenatore del mese, poi a metà dicembre dopo due sconfitte mi hanno esonerato. Con lo stupore dei tifosi che oggi mi mandano ancora messaggi di stima. Hanno chiuso all’ottavo posto, poi il campionato è stato sospeso quando è scoppiato il Covid, non si sono giocati i playout. Quest’anno sono partiti male e sono penultimi. Non ho accettato come è finita. Avevo portato con me anche due ragazzi della Juve. Mi hanno mandato via prima della finestra di mercato. Dopo il mio esonero la squadra è stata affidata al secondo Alex Dyer con Massimo Donati vice, ma i risultati sono stati deludenti.

L’esperienza con Conte al Chelsea l’ha spinta a riscegliere il nord d’Europa? C’è qualcosa che dobbiamo imparare da loro?

Sì, anche se il campionato scozzese è tutta un’altra storia. Soltanto Celtic e Rangers hanno potenza economica e 60mila spettatori. Gli altri club raccolgono le briciole. Ricordo la grande disponibilità dei calciatori e il loro spirito. È un calcio verticale, che si appoggia alla prima punta, molto alta di solito: così giocano quasi tutti, a parte Celtic e Rangers che hanno calciatori importanti. Ci sono spizzate e sportellate alla vecchia maniera. Non si sentono mai vinti, lottano fino alla fine, hanno uno spirito battagliero. L’intensità del gioco è alta, anche perché gli arbitri fischiano poco. Kilmarnock fa 45mila abitanti, è una città tranquilla. Mi fa molto piacere aver lasciato un buon ricordo.

Lei da ragazzo è cresciuto in Campania: quale è stato il suo percorso nel calcio? Aveva un mito da ragazzo?

Sono cresciuto nella squadra del mio paese, il Poseidon, a Capaccio Paestum. A 17 anni sono passato al Solofra: due osservatori mi hanno visto e mi hanno portato all’Avellino che in quegli anni giocava in Serie A. Il mio mito era Gigi Riva, sono cresciuto con le sue prodezze. Mi sono avvicinato al calcio così, giocavo coi miei fratelli. Sono nato attaccante. Dopo il primo anno alla Juve è iniziata la mia metamorfosi: ho cominciato a giocare sulla fascia. Sono andato in prestito al Bologna. Quando sono tornato a Torino ho fatto l’ala destra e il centrocampista.

Com’è stato l’impatto con la Juve?

Sono arrivato nella stagione ’87-88′, la prima senza Platini. Rino Marchesi in panchina, Ian Rush e Michael Laudrup in campo. Poi sono andato via in prestito, quando sono tornato c’era Zoff allenatore. Quell’anno arrivarono Casiraghi e Schillaci, il russo Aleinikov. Dopo l’addio di Platini erano venute fuori Napoli, Milan e Inter. Siamo riusciti a ritagliarci uno spazio importante nel ’90: arrivammo terzi in campionato e vincemmo la Coppa Uefa e la Coppa Italia.

Lei è stato allenato da Trapattoni alla Juve: ha qualche aneddoto?

Il Trap viveva il calcio a 360°, studiava tantissimo. Poi aveva sempre la battuta pronta, a volte raccontava barzellette. È stato il mio quarto ed ultimo allenatore alla Juve. L’anno prima del Trap avevo avuto Gigi Maifredi: con lui in panchina non siamo riusciti a qualificarci alle coppe, nonostante l’arrivo di tanti nuovi giocatori tra cui Roberto Baggio. È stato un anno difficile.

Nel ’91 alla Juventus è arrivato anche Antonio Conte: quale era la sua qualità migliore?

Era arrivato a novembre, c’era Trapattoni in panchina. Antonio era un giovane che si affacciava per la prima volta su un nuovo palcoscenico importante, si calò subito nella parte. Conte è stato sempre un ragazzo sveglio, recettivo, con voglia di fare e di imparare.

Nel ’92 lei ha lasciato la Juve: che cosa ricorda degli anni successivi?

Andai a Bari nello scambio con David Platt che passò alla Juve. Era una piazza importante. Speravamo di ritornare subito in A, ma così non è stato: ci siamo riusciti al secondo anno. Ho raggiunto il mio apice da calciatore a Torino sotto la guida di Zoff con cui vincemmo a sorpresa. Non avevamo una squadra di grossi nomi, ma si crearono un’alchimia e un’unione che ci portarono a risultati straordinari. Il calcio italiano era dominato dal Napoli di Maradona, dal Milan di Rijkaard, Gullit e van Basten, poi c’era l’Inter di Trapattoni che vinse lo scudetto nell’89’.

Quale è stato l’avversario più tosto che ha affrontato?

Diego, i campioni del Milan, Matthäus dell’Inter: ogni squadra aveva i suoi stranieri ed erano quasi tutti calciatori di alto livello. Negli Anni ’80 in Italia si giocava un bel calcio. Ho un bellissimo ricordo. Oggi tante squadre sono gestite da stranieri, allora c’erano presidenti italiani che erano prima tifosi e poi proprietari. Oggi sono coinvolti gruppi e fondi d’investimento: è totalmente diverso. Per giocarsela nel calcio di oggi bisogna fare le cose con programmazione e stare molto attenti ai conti. Alcune società sono anche quotate in Borsa.

Che idea si è fatto del progetto Superlega?

Credo che siano stati sbagliati tempi e modi, non mi è piaciuto come è avvenuto questo strappo. Nel 2024 avremo una nuova Champions League con più squadre. I top club si lamentano perché tante partite non attirano il pubblico e dicono che i giovani si stanno allontanando dal calcio. In futuro va fatto qualcosa per rendere la Champions più competitiva. Le società spendono tanto per allestire rose di primo livello e vogliono più introiti perché garantiscono un grande spettacolo. Per mantenere alto il livello della squadra bisogna avere sempre più soldi. Allo stesso tempo è bello sognare un calcio in cui tutti possono aspirare ad arrivare in Champions oppure a vincere un campionato come ha fatto il Leicester qualche anno fa. La Superlega è stata giustamente accantonata, ma in futuro qualcosa andrà fatto.

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