Al calcio servono aiuti. Però il calcio si deve aiutare

Il vuoto della pausa Mondiale da riempire avviando le riforme necessarie. A partire da qualche misura legata al tema fiscale: vietare l’acquisto di giocatori se prima non si è ceduto qualcuno. E vincolare i sostegni di Stato agli investimenti in infrastrutture e giovanili

Eppur si muove. Che non si potesse continuare a far finta di niente, a lasciare avanzare la crisi, non solo economica, del calcio italiano, era ormai chiaro a tutti gli appassionati, ma ancora rifiutato da buona parte degli addetti ai lavori. Ora sembra invece di percepire una consapevolezza diversa. Non più solo parole, ma anche qualche proposta concreta.

Peccato che gli otto mesi già trascorsi dallo choc della sconfitta con la Macedonia del Nord siano trascorsi invano. Non c’è più tempo da perdere. Adesso che la realtà del secondo Mondiale consecutivo senza gli azzurri ci verrà sbattuta in faccia ogni giorno fino a Natale, sarebbe opportuno riempire questo vuoto prendendo qualche decisione, avviando qualche riforma.

Sì, il calcio italiano, arrivato già assai debilitato per proprie responsabilità alla pandemia e perciò più colpito di altri dal Covid, ha bisogno d’aiuto, purché cominci anche ad aiutarsi da solo. È un po’ questo il senso del confronto d’idee sviluppatosi lunedì a Milano nel corso dell’iniziativa promossa da Rcs Academy. Particolarmente interessante il nuovo approccio alla materia del neo ministro Abodi: ok, l’emergenza adesso è la scadenza del 16 dicembre quando i club dovrebbero versare tutti insieme circa mezzo miliardo di oneri fiscali posticipati, darò parere favorevole alla richiesta di ottenerne una rateizzazione in cinque anni, a patto che la disponibilità finanziaria conseguente non venga come al solito bruciata.

L’ipotesi è imporre alle società che sfrutteranno l’opportunità di chiudere le prossime campagne acquisti con un saldo positivo o almeno pari a zero: vietato comprare giocatori se prima non si è ceduto qualcuno. Una misura pure a tutela di quelle squadre che invece le tasse le hanno pagate regolarmente rispettando le scadenze. Un’altra possibilità sarebbe vincolare eventuali sostegni di Stato, diretti o indiretti, agli investimenti in infrastrutture e settori giovanili. Per far sì che la sostenibilità del sistema calcio non resti soltanto uno slogan, occorre che i sostegni della mano pubblica, laddove realmente necessari, siano finalmente condizionati a una assunzione di responsabilità di dirigenti e protagonisti che passi attraverso un cambiamento di regole e di sistemi di controllo oggi inefficaci. Lo squilibrio fra costi e ricavi è diventato così ampio che non bastano a nasconderlo neppure operazioni di maquillage contabile discutibili come certe plusvalenze o di rivalutazioni del marchio utili a evitare le ricapitalizzazioni dei club in rosso profondo.

Il tetto, possibilmente internazionale, agli stipendi è un’opzione da approfondire, per quanto, se calcolato in percentuale sulle entrate come nelle nuove norme Uefa, non farebbe altro che favorire ulteriormente i grandi club con i fatturati più elevati. Per non essere seppellito dalla montagna di debito alta quasi 5 miliardi e mezzo di euro, il calcio italiano dovrebbe poi procedere davvero alla riforma dei campionati. Nessuno vuole fare il primo passo, tutti vogliono mantenere i privilegi acquisiti. Per la verità, una proposta di format innovativa è arrivata dalla Lega Pro. Non priva di elementi d’interesse, basandosi sulla doppia necessità di riconquistare l’attenzione dei giovani e di aumentare i ricavi: è costruita intorno alla valorizzazione dei play off e alla territorializzazione della prima fase. Forse è un po’ farraginosa nella sua complessità, ma soprattutto elude il tema del numero eccessivo delle società professionistiche: fra Serie A, B e C oggi sono 100. Troppe. Nessuno in Europa ne ha così tante. Non possiamo permettercele.

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